(Tar Lazio, Roma, sez. I, 5 gennaio 2015, n. 41)
«La pratica commerciale scorretta contestata alla società ricorrente con i provvedimenti qui impugnati è consistita nell’invio a diversi soggetti, al fine di recuperare presunti crediti, di preavvisi di esecuzione forzata, le modalità di presentazione dei quali, per aspetti grafici e lessicali, risultavano idonee a ingenerare nei destinatari il convincimento che, a prescindere dalla fondatezza della propria posizione debitoria, fosse preferibile provvedere rapidamente al pagamento dell’importo richiesto.
4. Con il primo motivo di doglianza del ricorso introduttivo, replicato nel primo motivo del ricorso per motivi aggiunti, la ricorrente ha sostenuto l’incompetenza dell’Autorità Garante della concorrenza all’adozione dei provvedimenti gravati.
Premesso di svolgere attività nel settore del recupero crediti stragiudiziale per conto terzi ai sensi dell’art. 115 del T.U.L.P.S., la ricorrente rappresenta di aver ottenuto dalla Questura la corrispondente autorizzazione, provvedimento nel quale sono pure specificati tutti gli obblighi inerenti la titolarità del titolo abilitativo, e che essa puntualmente adempirebbe.
L’AGCM, con il provvedimento gravato, avrebbe surrettiziamente introdotto ulteriori misure di tipo regolatorio, invadendo, così, la competenza dell’autorità di settore in violazione del principio di specialità.
4.1 Con il secondo motivo di doglianza del ricorso introduttivo, ribadito nel secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti, la ricorrente ha lamentato violazione e falsa applicazione della direttiva 2005/29/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2005, nonché degli articoli 18-27 del codice del consumo.
Sostiene la ricorrente che la pratica commerciale sanzionata non rientrerebbe tra quelle contemplate nell’elenco esaustivo contenuto nella direttiva, attenendo la stessa ad una mera attività di avviso al debitore delle conseguenze dell’inadempimento.
Peraltro, nel 90% dei casi, il creditore nel cui interesse la società agisce sarebbe un ente pubblico o un esercente un pubblico servizio, così che il richiamo alle espressioni tipiche dell’amministrazione finanziaria pubblica non avrebbe finalità ingannevoli, ma sarebbe espressione della natura del credito.
La denominazione [prescelta dalla ricorrente], inoltre, sarebbe stata adottata nel rispetto dei principi sanciti dall’art. 2563 c.c., mentre l’attività posta in essere atterrebbe, per la maggior parte dei casi, a crediti di natura “pubblica”.
Di tanto vi sarebbe conferma proprio nell’esame delle segnalazioni che hanno dato origine al provvedimento antitrust, casi in cui essa società avrebbe agito per il recupero di crediti contenuti in cartelle esattoriali.
4.2 Con il terzo motivo di doglianza del ricorso introduttivo, anche esso confluito nel secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti, la ricorrente ha lamentato violazione e falsa applicazione degli artt. 18, 20, comma 2, 24, 25 e 26, lett. f) del codice del consumo, travisamento dei fatti, difetto di istruttoria carenza della motivazione.
Illegittimamente l’Autorità avrebbe ritenuto aggressiva la pratica commerciale, atteso che sarebbero del tutto assenti i necessari elementi di molestia, coercizione o indebito condizionamento.
Inoltre i simboli utilizzati nelle richieste di pagamento sarebbero diversi da quelli con i quali i consumatori li avrebbero asseritamente confusi.
4.3 Con il quarto motivo di doglianza del ricorso introduttivo, terzo del ricorso per motivi aggiunti, la ricorrente lamenta violazione dell’art. 27, comma 7, del codice del consumo, eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche.
Ribadita la assenza di profili di ingannevolezza della pratica commerciale posta in essere, la ricorrente ha censurato, rispettivamente, l’adozione della misura cautelare, l’importo della sanzione ad essa inflitta e la previsione dell’obbligo di pubblicazione del provvedimento.
5. La questione principale oggetto dei gravami deve essere individuata nella ricorrenza o meno, nel caso in esame, di una pratica commerciale scorretta sanzionabile ai sensi del codice del consumo, ritenuta sussistente dall’Autorità e contestata dalla ricorrente con riferimento alla sussistenza dei presupposti soggettivi (essa non sarebbe qualificabile come professionista ai sensi dell’art. 18, né i debitori destinatari delle lettere sarebbero consumatori, attesa la riconducibilità dell’attività svolta ad una funzione di esecuzione di crediti pubblicistici), che con riferimento alla sussistenza dei profili oggettivi (esistenza di una pratica commerciale in senso tecnico ed ingannevolezza ed aggressività della medesima).
5.1. La ricostruzione proposta dalla ricorrente non può essere condivisa.
5.1.2 In primo luogo deve osservarsi come la ricorrente sia una società di diritto privato il cui oggetto sociale, a norma di statuto, consiste nel “l’esercizio della attività di recupero e gestione totale dei crediti insoluti o gravati della declaratoria di inesigibilità, anche per effetto di procedure di riscossione coatta”.
Che l’attività svolta consista in una mera attività di recupero crediti è confermato dalla stessa società nelle memorie indirizzate all’Autorità l’8 e il 25 ottobre 2013, ove è pure ribadita la natura imprenditoriale della medesima attività.
La stessa autorizzazione amministrativa, più volte citata in atti ed allegata in copia agli scritti difensivi della ricorrente, è riferita ad una attività di recupero crediti per conto terzi ed è rilasciata ai sensi dell’art. 115 del T.U. delle leggi di P.S., approvato con r.d. 18 giungo 1931 n. 773, disposizione in forza della quale l’operatore economico non viene investito di alcun potere pubblicistico.
Come puntualmente rappresentato nel provvedimento sanzionatorio del 22 gennaio 2014, inoltre, la società, che ha sempre sostenuto di agire, anche (e dunque neppure in via esclusiva), come mandataria di enti pubblici, “non ha fornito precisazioni e dettagli sugli Enti pubblici nonché sulle società che hanno conferito l’incarico di recupero crediti, sulla tipologia specifica di tali crediti e sulle modalità di svolgimento del servizio (in nome e per conto del creditore, con esazione diretta, ecc.)”.
Tale assunto non risulta in alcun modo smentito dall’avvenuta produzione di documentazione correlata a singole lettere oggetto di segnalazioni, atteso che tale documentazione, seppur fornisce notizie in ordine a specifici casi quanto all’ente impositore e all’importo del credito (peraltro, il più delle volte prescritto), nulla dice in relazione agli altri profili attinenti all’esistenza e alla natura del preteso “mandato” conferito ad essa ricorrente da enti pubblici o enti esercenti un pubblico servizio; conferimento che, peraltro, pur nella genericità della descrizione di parte, parrebbe presupporre una fase pubblicistica di individuazione del contraente, nonché la sussistenza dei requisiti di cui all’art. 53 del d.lgs. 446/1997, della cui assenza pure si dà atto nel provvedimento gravato.
La ricorrente, in conclusione, è un soggetto di diritto privato che non agisce per la riscossione di crediti erariali, ma per il mero recupero di crediti, attività nell’ambito della quale non è legittimata a richiamare, nelle missive indirizzate ai vari destinatari, l’art. 14 della legge n. 890/82, norma che, come rilevato dall’AGCM, evoca un potere di notifica riservato alla sola amministrazione finanziaria.
5.1.3 Quanto alla rilevanza della pratica commerciale ai sensi del codice del consumo, va sicuramente condivisa l’ascrizione della condotta sanzionata ad una pratica commerciale post vendita disciplinata dalla direttiva n. 2005/92/CE in materia di pratiche commerciali sleali, argomentata nel provvedimento con riferimento al fatto che “quando il consumatore ha un debito verso un professionista, il recupero di tale credito, sia a livello aziendale che svolto da parte di professionisti terzi è, comunque, direttamente legato alla vendita/fornitura di prodotti servizi”.
5.1.4 La ricorrente non può essere seguita neppure laddove afferma che i crediti azionati, derivando da rapporti pubblicistici e non privatistici, sarebbero estranei alla sfera di operatività della direttiva.
Ed infatti, in aggiunta a quanto sopra osservato in ordine all’assenza di prova dell’esistenza e del contenuto del preteso rapporto contrattuale della società con enti esercenti pubblici servizi, deve rilevarsi che la giurisprudenza ha costantemente riconosciuto come nel servizio pubblico locale rivolto al trasporto pubblico – al quale, dalla documentazione depositata in atti, paiono riferirsi i rapporti al cui interno sarebbero maturati i crediti azionati – ricorra una struttura trilatera, nella quale, al rapporto pubblicistico tra la concessionaria e l’amministrazione, si affiancano profili privatistici riguardanti il rapporto tra concessionario e utente.
Proprio sotto tale dirimente profilo e in considerazione degli aspetti di sinallagmaticità, ancorché peculiarmente atteggiati, che si instaurano tra concessionaria e utente, la giurisprudenza ha già riconosciuto la sottoposizione in parte qua, dell’attività della concessionaria alla disciplina del codice del consumo (T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 20 aprile 2011 n. 03954, più in generale sulla necessità di una valutazione sostanziale dell’attività svolta e della teorica riconducibilità alla nozione di professionista, rilevante ai sensi del codice del consumo e della correlata normativa comunitaria, anche degli enti pubblici e della Pubblica Amministrazione, Consiglio di Stato, sez. VI, 22 luglio 2014, n. 3897).
La fattispecie rientra pertanto sicuramente nella previsione dell’art. 18, comma 1, lettere da a) a d), del d.lgs. 206/2005, a norma del quale, “si intende per: a) “consumatore”: qualsiasi persona fisica che, nelle pratiche commerciali oggetto del presente titolo, agisce per fini che non rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale; b) “professionista”: qualsiasi persona fisica o giuridica che, nelle pratiche commerciali oggetto del presente titolo, agisce nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale e chiunque agisce in nome o per conto di un professionista; c) “prodotto”: qualsiasi bene o servizio, compresi i beni immobili, i diritti e le obbligazioni; d) “pratiche commerciali tra professionisti e consumatori” (di seguito denominate: “pratiche commerciali”): qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posta in essere da un professionista, in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori”.
5.1.5 Passando agli aspetti di ingannevolezza ed aggressività della pratica commerciale, deve poi ritenersi che gli stessi siano puntualmente e condivisibilmente evidenziati nei provvedimenti gravati, sia in considerazione dei profili di idoneità delle lettere inviate dalla ricorrente ad indurre in errore il consumatore medio in relazione alla concreta portata ed efficacia degli atti di esecuzione indicati e alla reale natura del professionista interessato – confermata, anziché smentita, dalla descrizione che la stessa ricorrente fa delle differenze, di non immediata percepibilità per il consumatore medio, con i corrispondenti simboli e terminologie pubblicistiche – sia i profili di aggressività costituiti dal richiamo a modalità esecutive riservate all’amministrazione finanziaria pubblica, che sono effettivamente idonei ad indurre il consumatore ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.
A nulla rileva, infine, l’asserita conformità della ditta prescelta all’art. 2563 del c.c., attesa la idoneità della denominazione prescelta, unitamente alle altre modalità puntualmente descritte nel provvedimento, a generare la ravvisata confusione indotta nei destinatari delle missive.
5.1.6 Alla stregua di quanto sin qui osservato, vanno dunque respinti il secondo e il terzo motivo di doglianza del ricorso introduttivo e il secondo motivo del ricorso per motivi aggiunti.
6. Va pure respinta la censura di incompetenza dell’AGCM per violazione del principio di specialità, atteso che non è configurabile, nella fattispecie concreta, una concorrente riconducibilità dei medesimi fatti ad ipotesi disciplinate dal T.U.L.P.S., che si limita a fissare le condizioni per l’esercizio dell’attività di recupero crediti, senza prevedere alcunché in tema di tutela dei consumatori, e ad ipotesi disciplinate dal codice del consumo.
In sostanza il ricorso non indica quale normativa speciale, applicabile al caso concreto, escluderebbe l’operatività delle previsioni generali in materia di tutela del consumatore e la correlata competenza dell’Autorità procedente.
7. Vanno infine respinti i motivi di ricorso attinenti alla adozione della misura cautelare e alla determinazione della sanzione.
7.1 Ed infatti la rilevata sussistenza e grave scorrettezza della pratica commerciale posta in essere dalla ricorrente legittimavano sicuramente l’adozione, in corso di procedimento, della misura cautelare di sospensione provvisoria della pratica commerciale scorretta, ai sensi dell’art. 27, comma 3, del d.lgs. 206/2005.
7.2 Il definitivo accertamento dei medesimi fatti giustificava poi l’adozione della misura sanzionatoria della sanzione amministrativa pecuniaria, peraltro determinata in misura estremamente prossima al minimo di legge e puntualmente correlata, conformemente alla previsione normativa di cui all’art. 27 del codice del consumo e dell’art. 11 della l. 689/81, alla gravità della violazione, al potenziale pregiudizio arrecato ai consumatori e alla durata della medesima, che si è protratta dal dicembre 2012 a dicembre 2013.
7.3 Del pari ampiamente motivata e correlata alla emergenza dei presupposti di legge appare la prevista pubblicazione, a cura e spese della ricorrente, di un estratto della delibera su un quotidiano, avendo l’amministrazione rappresentato come la pubblicazione risulti idonea a contenere gli effetti già prodotti nei confronti dei consumatori».
Daniele Majori – Avvocato Amministrativista in Roma
Fonte:www.giustizia-amministrativa.it
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