(Consiglio di Stato, sez. V, 11 ottobre 2013, n. 4980)
«Premesso che l’azione da cui trae origine il presente giudizio è di tipo impugnatorio, avverso il suddetto diniego di concessione, deve innanzitutto essere disattesa la prima censura, nella quale si sostiene che la stessa sarebbe inficiata da “un comportamento illegittimo” dell’amministrazione resistente, consistito nell’abnorme durata del procedimento, ed in particolare dell’atteggiamento inerte tenuto da quest’ultima successivamente al rilascio del parere favorevole da parte della Commissione edilizia. Per costante orientamento di questo Consiglio di Stato, infatti, il mancato rispetto del termine per la conclusione del procedimento non vizia l’atto conclusivo sopravvenuto alla scadenza di questo (ex plurimis: Sez. IV, 12 giugno 2012, n. 2264; 10 giugno 2010 n. 3695; Sez. VI, 1 dicembre 2010, n. 8371; 14 gennaio 2009, n. 140; 25 giugno 2008 n. 3215).
5.1.1 All’indirizzo ora richiamato deve essere data continuità, perché esso si fonda sull’applicazione di consolidate categorie di teoria generale di diritto, in base alla quale vanno tenute distinte le norme di comportamento dalle norme di validità degli atti giuridici e le conseguenze rispettivamente discendenti dalla violazione dell’une o delle altre, nel senso che solo in quest’ultimo caso la sanzione ricade sull’atto medesimo, determinandone a seconda dei casi la nullità o l’annullabilità, laddove nella prima ipotesi sorgono conseguenze esclusivamente di carattere risarcitorio (cfr. Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2007, n. 26724 e 26725). Ora, se è vero che per effetto della legislazione di origine europea questa fondamentale distinzione tende ad affievolirsi in alcuni settori dell’ordinamento giuridico, in particolare in quello dei contratti caratterizzati da uno squilibrio economico delle parti, la stessa rimane tuttora valida nel diritto amministrativo, nel quale l’atto amministrativo è annullabile se carente dei requisiti di legittimità per esso previsti. Questi ultimi, a loro volta, sia che derivino dalla violazione di precetti normativi (violazione di legge ed incompetenza), sia che concernano il perseguimento del fine pubblico costituente la causa del potere autoritativo (eccesso di potere), attengono al concreto svolgimento della funzione amministrativa sfociata nella determinazione provvedimentale. Il cattivo esercizio del potere che si compendia nei tre tradizionali vizi di legittimità ora ricordati (art. 3, comma 1, l. 1034/1971, vigente all’epoca dei fatti e ora art. 21-octies, comma 1, l. n. 241/1990) è in altri termini una qualificazione normativa scaturente dal rapporto tra il precetto normativo astratto e l’atto provvedimentale, il cui riscontro implica un accertamento che non può prescindere da una verifica intrinseca a quest’ultimo.
Lo stesso è del resto a dirsi per l’eccezionale categoria della nullità dell’atto amministrativo (art. 21-septies l. n. 241/1990 e 46, comma 1-bis, d.lgs. n. 163/2006) e dei contratti di diritto comune. Per questi ultimi, in particolare, la nullità costituisce la sanzione apprestata per i casi di contrasto con norme inderogabili dall’autonomia privata o che comunque la prevedano (nullità virtuale e testuale di cui, rispettivamente, ai commi 1 e 3 dell’art. 1418 cod. civ.), o ancora per carenza di un elemento strutturale del contratto stesso (nullità strutturale di cui all’art. 1418, comma 2).
Le fattispecie passate in rassegna esibiscono quindi un minimo comune denominatore, rappresentato dal fatto che i precetti normativi che presiedono alla manifestazione di volontà diretta a produrre effetti giuridici ne costituiscono elementi costitutivi necessari, la cui mancanza ne rende inconfigurabile la fattispecie (nel caso della nullità) o ne determina la successiva invalidazione (nel caso dell’annullabilità).
5.1.2 Il rispetto del termine per la conclusione del procedimento si pone al di fuori di questo schema.
Benché con la legge generale sul procedimento amministrativo si sia assistito alla generalizzazione del dovere di rispettare il suddetto termine (art. 2, l. n. 241/1990), nessuna disposizione di legge lo ha elevato a requisito di validità dell’atto amministrativo, rimanendo dunque lo stesso confinato sul piano dei comportamenti dell’amministrazione, il quale ha dato luogo all’elaborazione da parte di questo Consesso dell’istituto del silenzio (sin dalla pronuncia della IV Sezione 22 agosto 1922, n. 429). Detto in altri termini, non si è assistito in questo campo a quel fenomeno di trascinamento di obblighi di comportamento sul terreno del giudizio di validità dell’atto, registratosi invece in alcuni settori del diritto civile (come ad esempio per gli obblighi di informativa precontrattuale per i contratti in materia di servizi finanziari conclusi a distanza: art. 67-septies decies, comma 4, cod. consumo).
E’ ciò è agevolmente spiegabile ricordando che l’esercizio della funzione pubblica è connotato dai requisiti della doverosità e della continuità, cosicché i termini fissati per il suo svolgimento hanno giocoforza carattere acceleratorio, in funzione del rispetto dei principi di buon andamento (97 Cost.), efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa (art. 1, comma 1, l. n. 241/1990), e non già perentorio. Conseguentemente, la loro scadenza non priva l’amministrazione del dovere di curare l’interesse pubblico, né rende l’atto sopravvenuto di per sé invalido.
A conferma di quanto ora osservato si può richiamare la successiva evoluzione normativa, segnata fondamentalmente dall’introduzione di un rito accelerato contro il silenzio (art. 2 l. n. 205/2000, aggiuntivo dell’art. 21-bis l. n. 241/1990; ora art. 117 cod. proc. amm.) e della regola della risarcibilità del danno da ritardo (mediante l’art. 2-bis l. n. 241/1990, introdotto con l. n. 69/2009: ora ), fino alla previsione per esso di una tutela di carattere indennitario (art. 2, comma 1-bis, aggiunto dal d.l. n. 69/2013, conv. dalla l. n. 98/2013). Il costante indirizzo di politica legislativa che si ricava dai citati interventi normativi è in sostanza quello di mantenere l’obbligo di rispettare i termini di conclusione del procedimento sul piano dei comportamenti, fonte di responsabilità patrimoniale in caso di violazione, ma giammai requisito di validità degli atti.
5.1.3 Le stesse osservazioni possono essere fatte in chiave retrospettiva. Se infatti le ricordate innovazioni normative sono intervenute in epoca ampiamente successiva ai fatti oggetto del presente giudizio, non può nondimeno sottacersi come grazie all’opera pretoria di questo Consesso, il privato non risultasse anche allora sfornito di mezzi di tutela contro l’inerzia dell’amministrazione. Sin dal 1978, infatti, in epoca dunque antecedente alla generalizzazione dell’obbligo di rispettare i termini di conclusione del procedimento, l’Adunanza plenaria (decisione del 10 marzo 1978, n. 10) aveva affermato in generale l’applicabilità dello strumento della diffida e messa in mora prevista dall’art. 25 del testo unico degli impiegati civili dello Stato (l. n. 3/1957), e dunque uno strumento valevole per proporre l’azione civile di risarcimento danni contro il funzionario inerte, al fine di fare constare il rifiuto dell’amministrazione di provvedere ed il conseguente silenzio-inadempimento, mediante la relativa azione davanti al giudice amministrativo.
Inoltre, con specifico riguardo ai procedimenti di rilascio della concessione edilizia, l’art. 4, comma 1, l. n. 10/1977 opera(va) un rinvio all’art. 31 della legge urbanistica n. 1150/1942, in particolare per riguardo concerne la “procedura”. La norma richiamata, a sua volta, impone(va) all’amministrazione di provvedere entro 60 giorni dal ricevimento della domanda (comma 6), consentendo al privato istante di “ricorrere contro il silenzio rifiuto” (comma 7).
5.1.4 Pertanto, l’odierno ben avrebbe potuto avvalersi di quest’ultimo rimedio, per giunta senza dovere provvedere alla notifica di alcuna diffida.
Non può lo stesso, invece, dolersi dell’illegittimità del diniego sopravvenuto alla scadenza del suddetto termine. La verifica di conformità a legge di tale atto, in cui si sostanzia il giudizio di validità, come detto sopra, risulta infatti positiva, visto che il citato art. 4, comma 1, l. n. 10/1977 prescrive(va) che la concessione edilizia sia rilasciata “in conformità alle previsioni degli strumenti urbanistici”. Il che è proprio quanto avvenuto nel caso di specie, essendo il diniego motivato sulla base dell’incompatibile destinazione impressa dal sopravvenuto strumento urbanistico alla zona su cui l’intervento oggetto di domanda avrebbe dovuto essere realizzato.
5.1.4.1 Tanto meno l’appellante può dolersi del fatto che la regolamentazione urbanistica dell’area in senso impeditivo dell’intervento edilizio progettato sia stata possibile proprio a causa dell’abnorme durata del procedimento e inferire da ciò una dolosa preordinazione dell’amministrazione di negare in ogni caso il necessario titolo concessorio.
Infatti, come sopra detto, la legittimità di un atto amministrativo è data dalla sua oggettiva rispondenza alle norme di legge ed ai principi generali che presiedono all’esercizio della funzione amministrativa, mentre non rilevano a tal fine atteggiamenti meramente soggettivi dei funzionari inseriti nell’organizzazione dell’ente pubblico. Tramontate le ricostruzioni pan-civilistiche, la teoria generale dell’atto amministrativo si è ormai affrancata dagli elementi costitutivi di più diretta matrice contrattualistica ed in particolare dall’elemento della volontà e dalle relative connotazioni soggettivistiche. Più precisamente, nel campo dell’amministrazione la volontà rileva unicamente nella misura in cui si è estrinsecata nella determinazione autoritativa e non già quale espressione di uno stato psicologico dell’organo autore dell’atto».
Daniele Majori – Avvocato Amministrativista – Roma
Fonte:www.giustizia-amministrativa.it
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