(Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, 3 settembre 2015, n. 581)
«Venendo quindi a trattare dei rischi per la salute umana è proprio rispetto alla relativa valutazione che l’Amministrazione in prima istanza mostra di aver declinato in modo erroneo e, soprattutto, in maniera superficiale il pur indefettibile principio di precauzione.
Come è noto, il principio di precauzione, che è uno dei capisaldi della politica ambientale dell’Unione europea (e al quale si ispira anche la disciplina della tutela dell’esposizione ai campi elettromagnetici), è attualmente menzionato, ma non definito, nell’art. 191, paragrafo 2, del TFUE (ex art. 174 TrCE), insieme a quelli del “chi inquina paga” e dell’azione preventiva. Tale principio è stato concepito per offrire una risposta al problema della gestione dei rischi per la salute delle persone e per l’ambiente quando neppure la più seria istruttoria scientifica sia in grado di fornire delle certezze riguardo ai pericoli, agli oneri e agli effetti collaterali connessi ad una determinata attività. La finalità del principio è dunque quella di assicurare, in modo trasversale, la tutela di beni e di interessi primari, e tra questi certamente rientrano la tutela della salute umana e dell’ambiente, quando essi siano minacciati non solamente da pericoli concreti, ma anche da rischi difficilmente ponderabili. Un regime di tutela ispirato al principio di precauzione richiede, dunque, inevitabilmente l’acquisizione preventiva di una conoscenza accurata dei rischi connessi all’esercizio di determinate attività; conseguentemente, la ragionevolezza delle decisioni giuridiche dipende dall’attendibilità dei riscontri scientifici su cui esse si basano. Tale principio, come accennato, non è espressamente definito dal TFUE, e siffatta omessa definizione non è affatto causale, giacché detto principio, più di altri, si presta ad essere declinato in modi differenti, in quanto la sua applicazione nei casi concreti è sempre condizionata, per un verso, dal livello di protezione che si intende garantire (l’individuazione di siffatto livello è, soprattutto, oggetto di una scelta di carattere politico) e, per altro verso, dal tipo e dalla misura degli approfondimenti scientifici disponibili. Il principio non può dunque esser inteso nel senso che debba essere proibito qualunque intervento che, in astratto, possa presentare un rischio per l’interesse di volta in volta tutelato (in questi termini è stata, invece, l’applicazione fattane, nello specifico, dall’Arta). In tutta evidenza una lettura di questo genere porterebbe alla totale interdizione di qualunque attività umana della quale si possa temere, fondatamente o no, la potenziale pericolosità. Fortunatamente questa esegesi “paralizzante” e, in essenza, misoneista non si impone come l’unica interpretazione possibile (e nemmeno come la più convincente) del principio in parola. Quest’ultimo, a ben vedere, indica piuttosto un criterio metodologico per organizzare il procedimento decisionale negli ambiti caratterizzati da incertezza scientifica, senza per questo impedire qualunque forma di bilanciamento tra i costi e i benefici legati ad ogni singola scelta. Un’autorevole spiegazione del modus operandi del principio di precauzione è stata offerta dalla Comunicazione della Commissione europea COM(2000)1, adottata il 2 febbraio 2000, secondo cui il principio (all’epoca sancito dal citato art. 174 TrCE) deve trovare applicazione “in tutti i casi in cui una preliminare valutazione scientifica obiettiva indica che vi siano ragionevoli motivi di temere che i possibili effetti nocivi sull’ambiente e sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante possano essere incompatibili con l’elevato livello di protezione prescelto dalla Comunità” (pag. 3). Senza ripetere integralmente il contenuto di detta Comunicazione (alla quale è sufficiente in questa sede rinviare), basta qui segnalare che:
– in ordine ai fattori che attivano il ricorso al principio di precauzione, la Comunicazione (§. 5.1.), afferma a chiare lettere (a pag. 16) che detto ricorso presuppone l’identificazione di effetti potenzialmente negativi derivanti da un fenomeno, da un prodotto o da un procedimento e una valutazione scientifica del rischio che, per l’insufficienza dei dati o per il loro carattere non concludente o per la loro imprecisione, non consenta di determinare con sufficiente certezza il rischio in questione;
– in relazione ai principi generali di applicazione della precauzione (§. 6.3. della Comunicazione), si enunciano i criteri della proporzionalità delle misure, la non discriminazione delle medesime, la loro coerenza, l’esame dei vantaggi e degli oneri derivanti dall’azione o dalla mancanza di azione e l’esame della evoluzione scientifica.
Seguendo questa impostazione, al quale il Collegio ritiene di dover aderire, il principio non conduce automaticamente a vietare ogni attività che, in via di mera ipotesi soggettiva e non suffragata da alcuna evidenza scientifica, si assuma foriera di eventuali rischi per la salute, privi di ogni riscontro oggettivo e verificabile.
Il principio di precauzione richiede, piuttosto e in primo luogo, una seria e prudenziale valutazione, alla stregua dell’attuale stato delle conoscenze scientifiche disponibili, dell’attività che potrebbe ipoteticamente presentare dei rischi.
Se, conseguentemente, è corretto svolgere tale valutazione alla stregua di parametri precauzionali anche particolarmente rigorosi (ossia facendo riferimento, nel dubbio, al c.d. criterio del “caso peggiore”), occorre però che ciò si risolva nella formulazione di un giudizio che, pur se nella sua umana provvisorietà e quand’anche destinato a non determinare con sufficiente certezza l’entità di un rischio, abbia nondimeno un’attendibilità scientificamente significativa.
Con il risultato che, in applicazione di detto principio, sia vietato ciò che, sulla scorta di tale valutazione, risulti potenzialmente pericoloso, in misura non compatibile con i prestabiliti livelli di tutela e non altrimenti riducibile, e sia invece consentito il resto, sia pure con l’eventuale adozione di misure di riduzione del rischio.
Di un tale processo applicativo del principio di precauzione non vi è però traccia negli atti menzionati, i quali si limitano a menzionare l’art. 6, par. 3, della direttiva 92/43/CEE. Si tratta però di un’evocazione non risolutiva, laddove non corroborata dalle valutazioni a supporto del processo decisionale, analiticamente spiegate dalla Commissione europea nella sunnominata Comunicazione. Può perciò affermarsi che gli atti regionali di ritiro sarebbero stati verosimilmente legittimi, ove adottati sulla base di uno studio – purché adeguatamente autorevole e imparziale – che fosse però giunto a conclusioni di merito opposte a quelle degli accertamenti tecnici prodromici a suo tempo posti a base delle autorizzazioni poi “revocate”. Viceversa, detti atti sono illegittimi perché adottati in totale assenza di tale adeguato supporto istruttorio preventivo, supporto che sarebbe stato necessario e imprescindibile, proprio perché gli atti che si andavano a ritirare – contrariamente a quanto riportato nell’impugnata delibera di Giunta regionale n. 61/2013 – erano dotati, come si è già ricordato, di un proprio significativo supporto istruttorio, del quale il Ministero della difesa ha dato ampio conto.
In conclusione, l’Arta non avrebbe potuto procedere a un legittimo esercizio di autotutela nei confronti degli atti autorizzatori già rilasciati, se non muovendo da una preventiva confutazione (con metodo scientifico, nei sensi predetti) dell’attendibilità degli esiti degli accertamenti istruttori che erano stati compiuti prima dell’adozione degli atti poi revocati e sui quali questi ultimi si basavano. Sarebbe cioè occorsa, quantomeno, una dimostrazione di presumibile scarsa attendibilità di tali originari risultati istruttori.
Non spetta ovviamente a questo Consiglio verificare se gli atti di ritiro, qui esaminati, siano stati emanati sotto la spinta di suggestioni popolari, o per altre valutazioni politiche; resta infatti comunque illegittima ogni determinazione amministrativa assunta nel difetto dei relativi presupposti tecnico-giuridici, pur se tesa a soddisfare un diffuso sentimento della popolazione. In questo caso, oltretutto, il contenzioso tra diverse amministrazioni, ha impropriamente traslato sulla giurisdizione compiti che sarebbero propri, invece, dell’amministrazione attiva […]».
Daniele Majori – Avvocato e consulente aziendale
Fonte:www.giustizia-amministrativa.it
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