(Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, 23 aprile 2015, n. 363)
«Il primo motivo di appello deduce “violazione falsa applicazione dell’art. 38, comma 1, lettera a), del D.Lgs. n. 163/2006 e degli artt. 7 e 15 R.D. n. 267/1942”; in subordine, “questione di legittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 3, 4 24, 27, 102 e 111 Cost.”: in estrema sintesi, l’appellante sostiene che la pendenza di un procedimento per la dichiarazione di fallimento non possa riconnettersi alla mera presentazione di un’istanza a tal fine formulata da un creditore dell’impresa, prima ancora che essa sia stata vagliata da un giudice.
Il motivo di appello è fondato.
Ai sensi del cit. art. 38, comma 1, lettera a), del Codice dei contratti pubblici, “sono esclusi dalla partecipazione alle procedure di affidamento delle concessioni e degli appalti di lavori, forniture e servizi, né possono essere affidatari di subappalti, e non possono stipulare i relativi contratti i soggetti: a) che si trovano in stato di fallimento, di liquidazione coatta, di concordato preventivo, salvo il caso di cui all’articolo 186-bis del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, o nei cui riguardi sia in corso un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni”.
Nella specie, successivamente alle operazioni di gara che erano state effettuate il 28 marzo 2013, in sede di verifica delle dichiarazioni rese dall’aggiudicataria (l’odierna appellante, che tale era stata provvisoriamente designata), la Cancelleria del competente Tribunale […], dopo aver attestato che “non risultano pendenti procedure di fallimento, concordato preventivo, amministrazione controllata o liquidazione coatta”, tuttavia “attestava essere pendente istanza per la dichiarazione di fallimento iscritta in data 12 giugno 2013”.
Non risulta però che a tale istanza abbia fatto seguito alcuna attività del Tribunale fallimentare (convocazione dell’udienza camerale ex art. 15 R.D. n. 267/1942, né altro), fintanto che l’istanza medesima è stata infine rinunciata dal creditore proponente; conseguentemente, in data 8 ottobre 2013, il procedimento fallimentare è stato dichiarato improcedibile dal Tribunale ordinario.
Quanto ai lavori di cui all’appalto in discussione, essi sono stati ultimati il 22 agosto 2014, come da certificazione in atti, ossia nelle more tra la pubblicazione della sentenza di primo grado e la proposizione dell’odierno appello.
Diversamente da quanto opinato dal giudice di primo grado, ritiene questo Collegio che l’art. 38 cit. – nella parte in cui commina l’esclusione dalle gare pubbliche non soltanto a coloro “che si trovano in stato di fallimento, di liquidazione coatta, di concordato preventivo” (salvo quello c.d. “con continuità aziendale”, ex art. 186-bis R.D. cit.), ma anche a coloro “nei cui riguardi sia in corso un procedimento per la dichiarazione di una di tali situazioni” – non possa interpretarsi nel senso di attribuire rilievo, a tali fini, alla mera presentazione di un’istanza di fallimento di un privato che assuma di essere creditore dell’impresa asseritamente insolvente, prima che tale istanza abbia avuto alcun vaglio da parte dell’Organo pubblico giurisdizionale.
A questi fini, il procedimento non può considerarsi “in corso” finché non sia stato, quantomeno, notificato al preteso debitore insolvente il decreto di convocazione per l’udienza camerale di cui all’art. 15 del R.D. n. 267/1942: solo a partire da tale momento, infatti, si instaura il contraddittorio, e dunque il procedimento può considerarsi pendente.
Da un punto di vista letterale, infatti, è lo stesso art. 15 cit. (rubricato “Procedimento per la dichiarazione di fallimento”) a riconnettere l’avvio di tale procedimento alla convocazione delle parti; laddove, viceversa, la mera proposizione dell’istanza di fallimento è considerata dal precedente art. 6 (rubricato “Iniziativa per la dichiarazione di fallimento”), che si pone in un ambito pre-procedimentale; con il corollario che, se l’istanza viene revocata prima che il Tribunale provveda su di essa, nessun procedimento fallimentare può considerarsi mai iniziato (ciò che si è appunto verificato nella vicenda in esame).
Diversamente opinando, del resto, la causa di esclusione dalle pubbliche gare ex art. 38, lett. a), verrebbe a farsi dipendere esclusivamente da un’iniziativa privata, del tutto priva di ogni pur minimo riscontro da parte di un Organo pubblico, neppure in ordine alla sua stessa ammissibilità ai sensi della normativa fallimentare.
Ciò implicherebbe di riconoscere a un qualunque soggetto – in tesi del tutto irresponsabile, perché nullatenente; o, in casi limite, neppure esistente, ove l’istanza fosse proposta a nome di una società di fantasia – il potere di bloccare l’aggiudicazione o di provocarne (come è occorso in questo caso) la revoca (con nefaste conseguenze, agevolmente intuibili, anche in punto di gratuita ricattabilità dei concorrenti delle gare pubbliche).
Sicché il Collegio ritiene di condividere la prospettazione dell’appellante, nel senso di considerare la mera proposizione di un’istanza di fallimento unicamente come atto di impulso del relativo procedimento, al quale però essa rimane estranea e temporalmente antecedente.
Per l’effetto, va dichiarata l’illegittimità degli atti impugnati per aver riconnesso l’esclusione dalla gara al mero riscontro della presentazione di un’istanza di fallimento, senza aver ulteriormente accertato che essa fosse stata positivamente delibata dal Tribunale fallimentare, e neppure avendo autonomamente svolto lo stesso seggio di gara alcuna verifica – in contraddittorio con il concorrente interessato – sull’ammissibilità e sulla serietà dell’istanza medesima».
Daniele Majori – Avvocato Amministrativista in Roma
Fonte:www.giustizia-amministrativa.it
Discussione
Non c'è ancora nessun commento.