(Consiglio di Stato, sez. IV, 6 dicembre 2013, n. 5823)
«La Cooperativa [appellante] agisce per ottenere dal Comune […] il risarcimento dei danni subiti a seguito dell’annullamento in autotutela – poi annullato dal T.A.R. – di una concessione edilizia, secondo quanto esposto con maggiori dettagli in narrativa.
Senza dover esaminare, nelle sue articolate sfaccettature, il tema complesso della responsabilità della P.A., il Collegio esprime preliminarmente la propria convinta adesione all’orientamento – peraltro largamente dominante – secondo cui, al di fuori di specifici settori (in primis: quello degli appalti pubblici), non si dà responsabilità civile dell’Amministrazione per danno da provvedimento illegittimo senza il concorso dell’elemento soggettivo, normalmente identificato nella colpa (cfr. in termini esaustivi Cons. Stato, sez. IV, 31 gennaio 2012, n. 482).
L’illegittimità del provvedimento amministrativo, una volta accertata, costituisce solo uno degli indici presuntivi della colpevolezza, a valutare la quale vanno presi in considerazione anche altri fattori, quali il grado di chiarezza della normativa applicabile, la semplicità del fatto, il carattere pacifico della questione esaminata, il carattere vincolato o a bassa discrezionalità dell’azione amministrativa.
Nel caso di specie, è fuori discussione che la disciplina urbanistica da applicarsi fosse particolarmente complicata e oscura. Come osserva la sentenza del Pretore […], che ha mandato assolto i componenti della commissione edilizia comunale e lo stesso presidente del consiglio di amministrazione della Cooperativa dalle imputazioni di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) e di illecito edilizio, (art. 20, lett. b), della legge 28 febbraio 1985, n. 47), neppure il perito d’ufficio è stato in grado di rispondere in maniera soddisfacente al quesito del se l’area, su cui la Cooperativa intendeva edificare, avesse già espresso in tutto o in parte la volumetria edificabile a favore del complesso in precedenza realizzato da un’altra impresa.
Se è indubbio, quindi, che la questione non fosse “di facile soluzione” (per usare le parole della sentenza penale), il comportamento del Comune – che prima ha concesso e poi ha annullato la concessione – sfugge a un giudizio di riprovazione e dunque non consente di imputare all’Amministrazione il pregiudizio sofferto dalla Cooperativa.
In disparte la questione dell’applicabilità dei criteri restrittivi sanciti dall’art. 2236 c.c., che il T.A.R. ha richiamato, ma che l’appello contesta (vi è tuttavia giurisprudenza del Consiglio di Stato conforme a quanto affermato dal primo giudice: cfr. sez. V, 22 maggio 2006, n. 2960; sez. V, 19 marzo 2007, n. 1300), ritenere il Comune responsabile del danno, in una fattispecie intricata come quella descritta, significherebbe tendere la responsabilità della P.A. sino a lambire i confini della responsabilità oggettiva e dunque contraddire le premesse di ordine generale da cui si è inteso muovere.
A questo proposito, non è risolutivo l’argomento svolto dall’appellante, secondo la quale la complessità evocata dal giudice penale attiene a un momento e a un fatto (il rilascio della concessione edilizia) distinti da quelli che si assumono come produttivi dell’illecito (l’annullamento in autotutela). Rilascio e annullamento, infatti, sono come due facce della stessa medaglia e ruotano entrambe intorno alla medesima disciplina urbanistica all’epoca vigente, l’oscurità della quale non può essere messa seriamente in discussione.
Per la verità, la sentenza del T.A.R. n. 8834/2003 (che ha dichiarato illegittimo il provvedimento di annullamento in autotutela) motiva, oltre che in chiave di ricostruzione della normativa urbanistica, sulla mancata valutazione dell’interesse pubblico ad annullare d’ufficio una concessione edilizia già in fase di concreta esecuzione. Sarebbe questo un profilo – osserva l’appellante – rispetto al quale non potrebbero valere quelle considerazioni di complessità, sulla base delle quali l’illegittima applicazione della disciplina urbanistica potrebbe – a tutto concedere – non essere ricondotta a colpa dell’Amministrazione comunale.
Quest’ultima, tuttavia, replica di avere a suo tempo reputato implicita la prevalenza sull’interesse privato dell’interesse pubblico al ripristino della legalità e al rispetto delle regole di governo del territorio. Si può aggiungere, in punto di fatto, che il provvedimento di annullamento dà atto, nelle premesse, del carattere limitato dei lavori già eseguiti (la semplice parziale copertura del vano interrato.)
Si tratta di considerazioni non infondate, le quali devono essere valutate anche alla luce della circostanza che, nella decisione del T.A.R., il punto della mancata valutazione dell’interesse pubblico svolge un ruolo del tutto secondario, più che altro orientato al completamento della motivazione della decisione di accoglimento del ricorso.
Pertanto, il Collegio è dell’avviso che il profilo in questione, da solo, non sia in grado di integrare l’elemento soggettivo della colpa, necessario presupposto perché, dall’adozione di un provvedimento illegittimo, possa nascere un’obbligazione risarcitoria a carico della P.A. procedente.
Dalle considerazioni che precedono, discende che l’appello è infondato e va perciò respinto».
Daniele Majori – Avvocato Amministrativista – Roma
Fonte:www.giustizia-amministrativa.it
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