(Tar Veneto, sez. III, 23 maggio 2013, n. 747)
«Il ricorso deve essere accolto per l’assorbente ragione consistente nella violazione dell’articolo 10 bis della legge 7 agosto 1990, numero 241, per non essere il provvedimento impugnato, relativo all’assoggettamento a valutazione di impatto ambientale del progetto presentato dalla società ricorrente, stato previamente oggetto di comunicazione dei motivi ostativi ai sensi della predetta disposizione;
Va infatti osservato che la procedura di screening si sostanzia nella previsione di sottoporre determinati interventi astrattamente idonei a cagionare un rilevante impatto sull’ambiente a una verifica preliminare, al fine di accertare la sussistenza dei presupposti per l’esperimento della procedura di valutazione di impatto ambientale (V.I.A.).
Orbene, fin dal loro ingresso nel loro ordinamento, le procedure di V.I.A. e di screening, pur inserendosi sempre all’interno del più ampio procedimento di realizzazione di un opera o di un intervento, sono state considerate da dottrina e giurisprudenza prevalenti come dotate di autonomia, in quanto destinate a tutelare un interesse specifico (quello alla tutela dell’ambiente), e ad esprimere al riguardo, specie in ipotesi di esito negativo, una valutazione definitiva, già di per sé potenzialmente lesiva dei valori ambientali; di conseguenza, gli atti conclusivi di dette procedure sono stati ritenuti immediatamente impugnabili dai soggetti interessati alla protezione di quei valori (siano essi associazioni di tutela ambientale ovvero cittadini residenti in loco).
Tali conclusioni appaiono oggi confortate dalla disciplina generale di cui all’art. 20 del decreto legislativo 3 aprile 2006, nr. 152, che configura la stessa procedura di verifica dell’assoggettabilità a V.I.A., secondo l’opinione preferibile, come vero e proprio subprocedimento autonomo, caratterizzato da partecipazione dei soggetti interessati e destinato a concludersi con un atto avente natura provvedimentale, soggetto a pubblicazione.(cfr. CdS, n.1213/2009);
La sezione, del resto, ha da tempo riconosciuto l’applicabilità della comunicazione previa di motivi ostativi nel caso di diniego alla richiesta di screening (cfr. seppur in sede cautelare, ord. 3 maggio 2012 n.302)
Tuttavia identico ragionamento può svolgersi nel caso di domanda che obbligatoriamente debba essere introdotta ma il cui fine sia proprio quello di ottenerne la reiezione , secondo la formula del “vero che non”.
In altri termini, a seconda della prospettazione della domanda ben può accadere che l’istante adduca ragioni per condurre all’esclusione della necessità di sottoposizione preliminare del progetto, e che l’amministrazione, nel riconoscere invece la sussistenza dei profili conducenti a detta valutazione previa, pronunci un sostanziale diniego sulla domanda presentata, sicchè il provvedimento impugnato si configura proprio come diniego.
La previsione di cui all’art.10 bis della legge n.241/90, introdotta dalla legge numero 15 del 2005, risponde all’ esigenza di rendere noto prima dell’adozione del provvedimento sfavorevole, nel caso di procedimenti a istanza di parte, l’avviso dell’amministrazione, onde consentire al soggetto che ha presentato istanza e che per tale ragione ha già effettuato una valutazione di proponibilità e di fondatezza della propria domanda, una volta a conoscenza delle ragioni ostative addotte dall’amministrazione stessa, di confutarle nell’ambito del procedimento amministrativo, se del caso modificando la domanda originaria o proponendo la stipula di accordi sostitutivi ex art.11 L.n 241/90, non riservando così l’unico momento di confronto alla sede giurisdizionale o giustiziale, come avveniva prima della novella, posto che avverso il provvedimento esplicito di diniego non esisteva alcun tipo di reazione se non quella che si traduceva nella proposizione di un ricorso.
E che il legislatore miri al raggiungimento di tale fine discende da tutta la disposizione, la quale si applica a tutti i procedimenti a istanza di parte, esclusi quelli specificamente indicati dall’ultima parte dell’articolo, e in forza della quale si attua il travolgimento di alcuni dei principi essenziali del procedimento amministrativo, quale quello di certezza della durata del procedimento amministrativo stesso.
Come è noto la disposizione prevede che la comunicazione dei motivi ostativi produca l’effetto di interrompere i termini del procedimento che ricominciano a decorrere o una volta pervenute le osservazioni da parte dell’istante, ovvero una volta scaduti i 10 giorni che ordinariamente vengono assegnati per la presentazione delle stesse osservazioni, e che devono essere intesi come termine indefettibile minimo.
Il legislatore dunque non ha collegato l’interruzione del procedimento alla presentazione delle osservazioni – come ben avrebbe potuto fare, e come commendevolmente potrebbe oggi modificare la disposizione, evitando un inutile dilatarsi procedimentale, prevedendo poi un breve termine entro il quale concludere il procedimento con l’adozione dell’atto di diniego espresso nel caso di mancata presentazione -, ma alla semplice volontà dell’amministrazione di adozione di un atto negativo, sicché il termine procedimentale dipende ormai dal momento in cui viene inviato il preavviso di diniego, il quale, peraltro, risulta sconosciuto agli eventuali controinteressati procedimentali, i quali ben potrebbero essere stati, con le loro osservazioni, i “ responsabili” del previsto diniego, e quindi risulterebbero interessati a conoscere le eventuali confutazioni addotte dall’istante ( il nuovo termine, poi, potrebbe rilevare anche ai sensi dell’art.2 bis, escludendosi per tal modo il danno da ritardo, e ciò per volontà della sola amministrazione procedente).
In caso di mancata presentazione delle osservazioni, poi, essendo stato il termine procedimentale interrotto, una eventuale diffida all’adozione del diniego espresso per una pronta impugnazione potrebbe forse – solo- oggi trovare copertura normativa nel nuovo disposto dell’articolo 31 del codice del processo amministrativo, laddove prevede l’azione in caso di inerzia o negli “altri casi previsti dalla legge”; in effetti non potrebbe parlarsi di inerzia significativa in senso stretto, pendendo ancora i termini procedimentali, ma potrebbe consentirsi la ridetta azione in caso di consapevole volontà di non presentar osservazioni proprio al fine di giungere alla celere adozione del provvedimento espresso, ove si dimostrasse l’irreparabilità del danno causato dall’inutile protrarsi del termine procedimentale nuovamente acquisito in forza del preavviso di diniego, e l’impossibilità di attesa dell’adozione nei nuovi termini – si pensi alla decadenza da richiesta di contributo ove privi di titolo da conseguirsi prima della proposizione della domanda e oggetto del diniego.
La difesa dell’amministrazione richiama a conforto della legittimità del provvedimento impugnato giurisprudenza pacifica che si è formata sul punto, ma dalla quale il Collegio ritiene di dissentire, oltre per i principi sin qui richiamati, anche per le ragioni esposte di seguito.
Anzitutto la giurisprudenza citata riconduce l’istituto del c.d. preavviso di diniego a una generica necessità di partecipazione al procedimento, già ben garantita dall’impalcato procedimentale discendente dalla retta applicazione dell’art.7 della legge n.241/90, comportante l’avviso di avvio del procedimento onde consentire l’interlocuzione infraprocedimentale dell’interessato, istante o terzo.
Il che denoterebbe una lettura non solo riduttiva della novella introdotta con la legge n. 15/2005, ma anche sostanzialmente irrilevante ai predetti fini, ove appunto unico scopo della norma fosse la garanzia di contraddittorio procedimentale pieno.
E difatti ciò può essere affermato per l’avviso di avvio del procedimento, ma non riguardo al preavviso di diniego, il quale avviene solo una volta ultimata l’istruttoria e va qualificato come una sorta di ultima spiaggia o di ultima possibilità offerta all’istante per convincere la P.A. della fondatezza della richiesta, di talchè ben potrebbe avvenire che l’istante attenda proprio la comunicazione dei motivi ostativi per addurre le proprie osservazioni giustificative, nella consapevolezza dell’indefettibilità di tale momento procedimentale, risultando peraltro irrilevanti le acquisizioni infraprocedimentali ove non sostanziate nel preavviso di diniego, che costituisce a un tempo l’autolimite per la P.A. nell’individuazione delle ragioni del diniego – con derivata illegittimità del diniego fondato su ragioni diverse da quelle contenute nel preavviso- e il paradigma cui le confutazioni dell’istante devono conformarsi.
Anche dagli arresti contenuti nelle sentenze citate sull’art.21 octies il Collegio si discosta, ritenendo la lettura sottesa non rispettosa del testo normativo e della sua novità.
Affermare che il principio del raggiungimento dello scopo sia assorbente della violazione dell’art.10 bis significa pretermettere, nel caso di atto a contenuto non vincolato, vale a dire quello contemplato dall’art. 21 octies, secondo comma , seconda parte, della legge n.241/90, il chiaro disposto normativo che consente la non annullabilità – da parte del giudice ma non da parte dell’amministrazione, mercè il richiamo all’intero art.21 octies e non al solo primo comma contenuto nell’art.21 nonies L. n.241/90 – dell’atto in caso di ineluttabilità della adozione – e del suo contenuto- dimostrata tuttavia dalla p.a. costituita in giudizio.
Il richiamo della esistenza del principio anche ante novella del 2005, anzi, deve essere letto esattamente al contrario; va ricordato che il tema della c.d. motivazione postuma, vale a dire la possibilità che l’amministrazione giustificasse in sede contenziosa il provvedimento insufficientemente motivato, in ottica di strumentalità delle forme – in ciò qualificando il vizio della motivazione come meramente formale- le quante volte il provvedimento comunque adottato possedesse il crisma dell’ineluttabilità, aveva condotto, lungi dall’assumere quella generica locuzione prospettata in parte dallo stesso legislatore, contenuta in una delle leggi annuali di semplificazione – poi abbandonata -secondo cui l’obbligo di motivazione si ritenesse assolto “ove la stessa emergesse dal contenuto dell’atto”, a ritenere sostanzialmente inutile l’avviso di avvio del procedimento in caso di “conoscenza aliunde”.
L’art.21 octies è espressivo della medesima esigenza di conservazione dell’atto illegittimo in taluni casi.
Ma affermare che il legislatore abbia voluto sostanzialmente normativizzare il principio giurisprudenziale significa negare la significativa circostanza che l’effetto sanante si abbia solo nel caso in cui sia la stessa amministrazione costituendosi in giudizio a dimostrare “che il provvedimento non avrebbe – rectius: sarebbe- potuto essere diverso da quello in concreto adottato”; in altri termini il legislatore ha imposto questa ulteriore condizione, il che significa che la giurisprudenza formatasi prima della novella non può essere recepita sic et simpliciter, chè altrimenti il legislatore non avrebbe avuto nessun bisogno di introdurre detto requisito, che, tra l’altro, vale anche a distinguere le ipotesi di atto vincolato e discrezionale.
La ridetta lettura, in realtà, si traduce in una disapplicazione della disposizione, le quante volte conduca alla declaratoria di non annullabilità in caso di mancata costituzione dell’amministrazione.
Del tutto impertinente, in ogni caso, è il richiamo alla teorica formatasi sull’avviso di avvio del procedimento ove applicata al preavviso di diniego, la cui diversa ratio è stata diffusamente spiegata ut supra.
Il ricorso deve essere dunque accolto per l’assorbente ragione consistente nella violazione dell’articolo 10 bis della legge 7 agosto 1990, numero 241, per non essere stato il provvedimento impugnato da ultimo previamente oggetto di comunicazione dei motivi ostativi ai sensi della predetta disposizione».
Daniele Majori – Avvocato Amministrativista – Roma
Fonte:www.giustizia-amministrativa.it
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