(Tar Sicilia, Catania, sez. IV, 27 marzo 2013, n. 880)
«In ordine all’an e al quantum del risarcimento vanno fatte le seguenti osservazioni.
E’ da premettere che in relazione sia al “mancato guadagno”che al danno curriculare, la ricorrente chiede il risarcimento dell’utile presuntivo non percepito, quantificandolo nel 10 % dell’offerta così come dalla stessa presentata.
Come è noto, la Giurisprudenza (cfr. Cass. Civ., Sez. Un., 22 luglio 1999 n. 500) ha già da tempo affermato il principio per cui anche la lesione di un interesse legittimo, al pari di quella di un diritto soggettivo o di altro interesse giuridicamente rilevante, può essere fonte di responsabilità aquiliana, e quindi dar luogo a risarcimento del danno ingiusto, a condizione che risulti danneggiato, per effetto dell’attività illegittima dell’Amministrazione, l’interesse al bene della vita al quale il primo si correla e che detto interesse risulti meritevole di tutela alla stregua del diritto positivo. E questo perché ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, visto che la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante.
Come rammentato ancora dalla Sezione (cfr. TAR Catania, IV, 2636/12 cit.) <<tale principio, come è noto, è stato consacrato in via generale dal legislatore, dapprima con l’art. 7 della L. n. 205/2000, che, nel sostituire l’art. 35 del D.Lgs. n. 80/98, ha previsto che “il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto”, e, nel sostituire il primo periodo del terzo comma dell'art. 7 della L. n. 1034/71 ha previsto che “il tribunale amministrativo regionale, nell'ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali”.
<<E, da ultimo, con il D.Lgs. n. 104/2010, di approvazione del codice del processo amministrativo, che all’art. 7, commi 4 e 5, dispone che “sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma. Nelle materie di giurisdizione esclusiva, indicate dalla legge e dall’articolo 133, il giudice amministrativo conosce, pure ai fini risarcitori, anche delle controversie nelle quali si faccia questione di diritti soggettivi”.
<<E il successivo art. 34, comma 1, lett. c), prevede che “in caso di accoglimento del ricorso il giudice, nei limiti della domanda,…condanna al pagamento di una somma di denaro, anche a titolo di risarcimento del danno, all’adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio e dispone misure di risarcimento in forma specifica ai sensi dell’articolo 2058 del codice civile”.
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Per quanto riguarda la situazione soggettiva, si è già detto.
Il nesso causale sussiste anch’esso, perché, come chiarito in punto di diritto, con una corretta applicazione delle disposizioni regolatrici della procedura, la ricorrente aveva titolo a essere aggiudicataria della gara. In mancanza, ha perduto il c.d. utile d’impresa.
Si tratta, dunque, come premesso, di dover liquidare concretamente, determinandone la misura, il risarcimento del danno.
Ai sensi dell’art. 1223 cod. civ., si deve avere riguardo al danno emergente e al lucro cessante e, cioè, rispettivamente, alla concreta diminuzione reale del patrimonio del privato (che nel caso della procedura ad evidenza pubblica per conseguire l’affidamento di un appalto può essere riferito alle spese sostenute per la partecipazione alla selezione, che, nel caso in esame, non sono oggetto di alcuna specifica domanda) e alla perdita di un’occasione di guadagno o, comunque, di un’utilità economica connessa all’adozione o all’esecuzione del provvedimento illegittimo.
Se per il danno emergente non vi è alcuna difficoltà probatoria, consistendo la prova nella semplice necessaria produzione in giudizio della documentazione attestante le spese sostenute, per il lucro cessante, oggetto della specifica richiesta introdotta dalle ricorrenti, l’onere della prova è più complesso.
In questo caso (cfr. TAR Catania, 2636/12 cit.), <<per avere accesso al risarcimento, infatti, il privato deve dimostrare non solo che la sua sfera giuridica ha subito una diminuzione per effetto dell’atto illegittimo, ma che non si è accresciuta nella misura che avrebbe raggiunto se il provvedimento viziato non fosse stato adottato o eseguito.
<<In precedenza, sia il legislatore che la giurisprudenza hanno sentito l’esigenza di ricorrere a criteri presuntivi ed astratti di determinazione del danno.
<<Il primo ha individuato un preciso canone per la determinazione del pregiudizio connesso alla perdita di un’occasione di successo in una procedura concorsuale, definendo, con l’art. 35 del D.Lgs. n. 80/98 (ora abrogato dal n. 20 del comma 1 dell’art. 4 dell’allegato 4 al D.Lgs. 2 luglio 2010 n. 104), un peculiare metodo di liquidazione del danno fondato proprio sulla definizione giudiziale di parametri valutativi indeterminati.
<<La giurisprudenza amministrativa ha invece individuato in via equitativa, ex art. 1226 c.c., un riferimento positivo, applicato analogicamente in materia di appalti sia di servizi che di forniture, prima nell’art. 345 della L. 20 marzo 1865 n. 2248, allegato F, poi nell’art. 122 del D.P.R. 21 dicembre 1999 n. 554, nell’art. 37 septies, comma 1, lett. c, della l. 11 febbraio 1994 n. 109, e infine nell’art. 134 del D.Lgs. 163/2006; tutte disposizioni che quantificano nel 10% “dell’importo delle opere non eseguite” l’importo da corrispondere all’appaltatore in caso di recesso facoltativo dell’Amministrazione, nella determinazione forfettaria ed automatica del margine di guadagno presunto nell’esecuzione di appalti di lavori pubblici (cfr., ex multis, Cons. St., sez. IV, 6 luglio 2004 n. 5012; Id., sez. V, 30 luglio 2008 n. 3806).
<<Tale orientamento, peraltro molto diffuso, non era però seguito in maniera unanime, sostenendosi anche che ai fini del risarcimento dei danni provocati da illegittimo esercizio del potere amministrativo il soggetto che avanza la domanda di risarcimento deve fornire in modo rigoroso la prova dell'esistenza del danno, non potendosi invocare il c.d. principio acquisitivo, perché tale principio attiene allo svolgimento dell'istruttoria e non all'allegazione dei fatti. Inoltre, nel processo amministrativo non sarebbero ammissibili domande di condanna generica ex art. 278 c.p.c., e il ricorso alla c.d. "sentenza sui criteri" – ex art. 35, comma 2, d.lgs. n. 80/1998 – di liquidazione del danno postula che sia stata accertata l’esistenza del danno stesso e che il giudice sia in grado di individuare i criteri generali che saranno di guida per la formulazione dell'offerta da parte della P.A. (cfr. Cons. St., sez. V, 13 giugno 2008 n. 2967).
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E’ da condividere la conclusione cui giunge la detta decisione , secondo la quale la ricorrente ha assolto <<all’onere probatorio previsto dall’art. 2697 c.c., secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda, poiché l’esistenza ("an") del danno è stata provata in modo univoco, dato che con la corretta applicazione delle regole di gara la ricorrente sarebbe stata l’aggiudicataria, e avrebbe quindi lucrato il c.d utile d’impresa, visto che deve darsi come dato acquisito quello per cui ogni impresa esercita la propria attività perché vi realizza un guadagno.
<<E gli elementi prodotti in giudizio sono quindi sufficienti ad emettere una pronuncia che statuisca sul "quantum" spettante a titolo di riparazione pecuniaria, tenendo conto del fatto che, in materia di illeciti civili in generale, la prova del danno può essere articolata con ogni mezzo, ivi comprese le allegazioni e le presunzioni semplici di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c. (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. III, 13 giugno 2008 n. 15986, con la precisazione che la relativa dimostrazione deve comunque risultare idonea a consentire al giudice, in applicazione della regula iuris di cui all'art. 116 c.p.c., una valutazione in concreto – e cioè caso per caso, anche a prescindere da mere regole statistiche – dell’assunto attoreo, rappresentato in termini consequenziali di verificazione dell’evento di danno/conseguenza ingiustamente dannosa, secondo la regola di inferenza probatoria del «più probabile che non»).
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Ciò posto, per quanto riguarda il mancato utile d’impresa, in applicazione dei principi di cui al citato art. 1226 c.c., il Collegio ritiene, diversamente dalla pronuncia n. 2636/12 diffusamente sopra richiamata, che non può essere riconosciuto tout court il 10% dell’importo derivante dal ribasso operato in offerta e come sopra determinato.
Invero, coerentemente con l’indirizzo in precedenza seguito (cfr., ex multis, TAR Catania, III, 23.11.2011, n. 2760; 16.1.2013, n. 53), questa voce di danno deve essere ulteriormente ridotta in applicazione del diffuso orientamento giurisprudenziale che tiene conto – nella stima del lucro cessante – anche della posta negativa rappresentata dall’aliunde perceptum.
Ci si riferisce in particolare al filone giurisprudenziale che ha precisato come: “(…) il lucro cessante da mancata aggiudicazione può essere risarcito per intero se e in quanto l’impresa possa documentare di non aver potuto utilizzare mezzi e maestranze, lasciati disponibili, per l’espletamento di altri servizi, mentre quando tale dimostrazione non sia stata offerta è da ritenere che l’impresa possa avere ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per lo svolgimento di altri, analoghi servizi, così vedendo in parte ridotta la propria perdita di utilità, con conseguente riduzione in via equitativa del danno risarcibile. Si tratta, appunto, di una applicazione del principio dell’aliunde perceptum (ben nota alla giurisprudenza civilistica: basti pensare all’aliunde perceptum del lavoratore illegittimamente licenziato e poi reintegrato), in base al quale, onde evitare che a seguito del risarcimento il danneggiato possa trovarsi in una situazione addirittura migliore rispetto a quella in cui si sarebbe trovata in assenza dell’illecito, va detratto dall’importo dovuto a titolo risarcitorio, quanto da lui percepito grazie allo svolgimento di diverse attività lucrative, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire l’appalto in contestazione .
L’onere di provare l’assenza dell’aliunde perceptum grava non sull’Amministrazione, ma sull’impresa” (cfr., da ultimo, Cons Stato, sez. VI, 18 marzo 2011, n. 1681).
Tale ripartizione dell’onere probatorio, che ha sollevato in dottrina alcune perplessità (si è sostenuto che l’aliunde perceptum verrebbe in considerazione come fatto impeditivo del diritto al risarcimento del danno e non come fatto costitutivo, con la conseguenza che la relativa prova dovrebbe gravare sulla stazione appaltante e non sul privato), muove, tuttavia, come sopra si evidenziava, dalla presunzione, a sua volta fondata sull’id quod plerumque accidit, secondo cui l’imprenditore (specie se in forma societaria), in quanto soggetto che esercita professionalmente una attività economica organizzata finalizzata alla produzione di utili, normalmente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma si procura prestazioni contrattuali alternative che dalla cui esecuzione trae utili. In sede di quantificazione del danno, pertanto, spetterà all’impresa dimostrare, anche mediante l’esibizione all’Amministrazione di libri contabili, di non aver eseguito, nel periodo che sarebbe stato impegnato dall’appalto in questione, altre attività lucrative incompatibili con quella per la cui mancata esecuzione chiede il risarcimento del danno.” (Cons. Stato, VI, 3144/2009; negli stessi termini, Cons. Stato, VI, 7004/2010; Cons. Stato, VI, 2751/2008; Tar Puglia Bari, 3456/2010; Tar Lazio Roma, III, 33406/2010; Tar Liguria Genova, II, 1213/2010).
Sebbene la soluzione rigorosa appena descritta non risulti unanimemente condivisa in giurisprudenza (cfr. in senso contrario C.G.A. 2126/2010; Tar Molise Campobasso, 128/2009), il Collegio ritiene di confermare l’opzione interpretativa in tal senso seguita fino ad ora dal Tribunale (cfr. T.A.R. Sicilia Catania, III, 16.1.2013, n. 53, cit.; 23.11.2011, n. 2760 cit.; sez. II, 8.9.2011, n. 2196; sez. I, 10 marzo 2011, n. 569; Tar Catania, I, 2075/2009; Tar Catania, I, 1681/09), che risulta comunque conforme all’orientamento giurisprudenziale più diffuso.
L’opzione della prova a carico dell’Amministrazione circa l’utilizzo di mezzi e persone in altre attività dell’impresa, infatti, finirebbe con il determinare una vera e proprio “probatio diabolica” di impossibile applicazione.
In conclusione, il risarcimento per lucro cessante dovuto alle ricorrenti – in mancanza della prova del mancato utilizzo di strumenti e maestranze in ulteriore e diverso impiego produttivo – va calcolato, anche in considerazione, come premesso, del grado di difficoltà interpretativa nella materia de qua, nella misura che sembra equo determinare nel 5 % sul valore della base d’asta quale risulta dall’applicazione della percentuale di ribasso offerta dalla ricorrente al momento della partecipazione alla gara (e, quindi limitata alla sola offerta economica, posto che la parte residua é incomprimibile, e, come tale, non oggetto di possibile mancata perdita economica).
L’impresa ingiustamente privata dell’esecuzione di un appalto, però, può rivendicare, a titolo di lucro cessante, anche la perdita della specifica possibilità concreta di incrementare il proprio avviamento per la parte relativa al curriculum professionale, da intendersi anche come immagine e prestigio professionale, al di là dell’incremento degli specifici requisiti di qualificazione e di partecipazione alle singole gare (cfr., ex multis, Cons. St., sez. IV, 27 novembre 2010 n. 8253).
In particolare, secondo quanto condivisibilmente precisato dalla decisione 2636/12 più volte richiamata, <<il danno che l’impresa riceverà in futuro dal mancato inserimento di questo specifico appalto nel proprio curriculum d’impresa, cioè il risarcimento del danno futuro, sia in termini di danno emergente che di lucro cessante, non può compiersi in base ai medesimi criteri di certezza che presiedono alla liquidazione del danno già completamente verificatosi nel momento del giudizio, e deve avvenire secondo un criterio di rilevante probabilità; a tal fine, il rischio concreto di pregiudizio è configurabile come danno futuro ogni volta che l’effettiva diminuzione patrimoniale appaia come il naturale sviluppo di fatti concretamente accertati ed inequivocamente sintomatici di quella probabilità, secondo un criterio di normalità fondato sulle circostanze del caso concreto (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. III, 27 aprile 2010 n. 10072).
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Motivo per il quale il Collegio ritiene che la voce del c.d. danno curriculare possa essere ragionevolmente quantificata in misura pari al 2% – equitativamente stimata e calcolata sull’intero importo dell’offerta della ricorrente.
Trattandosi di debiti di valore (risarcimento del danno), sulle somme così liquidate deve riconoscersi la rivalutazione monetaria, secondo gli indici ISTAT, da computarsi dal giorno della stipula del contratto (individuabile come data dell’evento causativo di danno) e fino alla data di deposito della presente decisione (data quest’ultima che costituisce il momento in cui, per effetto della liquidazione giudiziale, il debito di valore si trasforma in debito di valuta).
Sulle somme rivalutate non vanno computati gli interessi legali, spettanti invece dalla data di deposito della presente decisione fino all’effettivo soddisfo (TAR Sicilia – Catania, Sez. IV, 25 maggio 2011, n. 1279 e 7 gennaio 2010, n. 3)».
Daniele Majori – Avvocato Amministrativista
Fonte:www.giustizia-amministrativa.it
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