Autorizzazioni, Commercio

Il Comune ha l’obbligo di pronunciarsi sull’istanza di autorizzazione per l’apertura di una grande struttura di vendita anche in assenza della previa programmazione commerciale.

(Tar Sicilia, Catania, sez. I, 9 gennaio 2023, n. 26)

«E’ noto che in base all’art. 6 del d.lgs. n. 114/1998 la Regione dispone di poteri di regolamentazione nei confronti dei comuni competenti per la fase di programmazione urbanistica (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 1° giugno 2018, n. 3316).
Inoltre, in base alla normativa contenuta nella L.R. n. 28/1999, emanata in dichiarata applicazione di quanto previsto dall’art. 14, lettera d), dello Statuto regionale in materia di legislazione esclusiva, la Regione, ai fini della razionalizzazione della rete commerciale, emana direttive ed indirizzi di programmazione commerciale (per la persistenza di uno spazio di competenza regionale, v. anche Consiglio di Stato, sez. V, 26 ottobre 2018, n. 6116).
Ciò premesso, la tesi della società ricorrente, secondo cui il Comune dovrebbe pronunciarsi sull’istanza di autorizzazione per l’apertura di una grande struttura di vendita anche in assenza della previa programmazione commerciale, può trovare accoglimento nei termini che seguono, così come statuito di recente dal Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana con le sentenze n. 409 del 30 marzo 2022 e n. 131 del 17 febbraio 2020, richiamate dalla società ricorrente.
La mancanza della previa programmazione commerciale non è infatti idonea a giustificare il provvedimento reso in quanto adottato in violazione dell’art. 23, comma 7 della l.r. n. 28 del 1999, che reca una disciplina transitoria delle domande di ampliamento delle grandi strutture di vendita, imponendone l’esame decorsi diciotto mesi dall’entrata in vigore, anche in assenza delle disposizioni di cui all’art. 5, prescindendo altresì dalla distinzione tra interventi regionali e comunali.
Ha chiarito il Giudice d’appello con la richiamata decisione n. 131/2020 – il cui impianto motivazionale si condivide pienamente in questa sede ai sensi e per gli effetti dell’art. 74 c.p.a., secondo cui “nel caso in cui ravvisi la manifesta fondatezza […] il giudice decide con sentenza in forma semplificata. La motivazione della sentenza può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme” – che «dal punto di vista sistematico la norma transitoria appare funzionale a garantire la posizione del privato in rapporto a eventuali inerzie dell’amministrazione. Ciò sulla base della considerazione che la pretesa di svolgere attività commerciale non può essere inibita dall’apatia pubblica, con la conseguenza che la tutela ha ragione di esistere indipendentemente dalla qualificazione, regionale o comunale, dell’ente che ha omesso di determinarsi.
«Del resto, tale lettura risulta in linea con la disciplina generale del procedimento amministrativo, in particolare in relazione al livello essenziale delle prestazioni individuato nell’obbligo di rispettare il termine di conclusione del procedimento, con la disciplina in materia di liberalizzazione delle attività commerciali e con la normativa urbanistica.
«In punto di termine di conclusione del procedimento amministrativo si rileva che il diniego opposto all’istanza di ampliamento dell’esercizio commerciale», giustificato in ragione della mancata approvazione del piano urbanistico commerciale, «determina, nella posizione del privato, una situazione di sospensione, priva di termine finale, della pretesa avanzata.
«La conclusione (negativa) del procedimento individuale si risolve, quanto ai riflessi sugli interessi fatti valere, in un perdurante stato di differimento dell’esigenza avanzata, in attesa di un atto programmatorio di competenza della medesima Amministrazione deputata a riscontrare l’istanza, con conseguente violazione della ratio sottesa alla normativa sui termini di conclusione del procedimento.
«Un’interpretazione conforme al livello essenziale in esame impone, pertanto, di individuare una possibilità di scrutinio della pretesa che prescinda dalle incombenze individuate dall’art. 5 della l.r. n. 28 del 1999, ma risponda all’interesse pubblico sotteso a quelle incombenze.
«Nella seconda prospettiva vengono in evidenza gli obiettivi e le previsioni della direttiva 2006/123/CE del 12 dicembre 2006, recepita nell’ordinamento italiano con d.lgs. 26 marzo 2010, n. 59, la quale, al fine di garantire un mercato interno dei servizi realmente integrato e funzionante, ha sottoposto a condizioni assai stringenti la possibilità per i legislatori degli Stati membri di subordinare l’accesso ad un’attività di servizio e il suo esercizio ad un regime di autorizzazione.
«La direttiva servizi stabilisce infatti che le procedure autorizzatorie, quando ammesse (per la tutela di imprescindibili interessi generali, come si vedrà di seguito), siano accessibili, trasparenti e tempestive.
«L’art. 13 stabilisce che “in mancanza di risposta entro il termine stabilito o prorogato l’autorizzazione si considera rilasciata. Può tuttavia essere previsto un regime diverso se giustificato da un motivo imperativo di interesse generale, incluso un interesse legittimo di terzi”.
«Nella sentenza della Corte di Giustizia 24 marzo 2011, resa nella causa C-400/08, si legge che “secondo una giurisprudenza costante, l’art. 43 CE osta ad ogni provvedimento nazionale che, pur se applicabile senza discriminazioni in base alla nazionalità, possa ostacolare o scoraggiare l’esercizio, da parte dei cittadini dell’Unione, della libertà di stabilimento garantita dal Trattato”.
«Del resto, per raggiungere l’obiettivo del mercato unico l’art. 50 del TFUE attribuisce al Parlamento ed alla Commissione il compito specifico di agire “sopprimendo quelle procedure e pratiche amministrative contemplate dalla legislazione interna ovvero da accordi precedentemente conclusi tra gli Stati membri, il cui mantenimento sarebbe di ostacolo alla libertà di stabilimento”.
«Anche nella prospettiva dell’Unione europea un diniego di autorizzazione fondato sulla mancanza di un atto programmatorio di competenza della medesima Amministrazione deputata a riscontrare l’istanza non risulta, pertanto, ammissibile e muove nel senso di rendere applicabile la norma transitoria recata dalla l.r. n. 28 del 1999.
«Diversamente, una interpretazione della medesima disciplina, che comporti l’impossibilità per l’Amministrazione di riscontrare le istanze di ampliamento dei grandi centri di vendita sine die, implicherebbe una ingiustificata restrizione alla libera prestazione dei servizi e alla concorrenza, posto che la sospensione del rilascio di nuovi provvedimenti autorizzatori determinerebbe l’effetto di cristallizzare il mercato nel suo assetto esistente e si traduce nella sospensione (senza termine) della libertà, costituzionalmente garantita, di accesso al mercato.
«Così facendo la normativa regionale violerebbe le disposizioni della direttiva c.d. Bolkestein in quanto introdurrebbe una limitazione all’accesso ad un’attività di servizio che non si fonda sui motivi imperativi di interesse generale (ma sull’inerzia dell’Amministrazione), e, in ogni caso, non rispettosa del principio di proporzionalità.
«Nella terza prospettiva viene altresì in evidenza il tema della compatibilità fra la decisione di ritenere illegittimo il diniego di ampliamento della struttura commerciale fondato sulla mancata adozione del piano urbanistico ambientale e il rispetto delle prerogative di governo del territorio anche in punto correlazione fra esigenze urbanistiche e esigenze commerciali.
«L’art. 9, par. 1, della direttiva citata dispone che “gli Stati membri possono subordinare l’accesso ad una attività di servizio e il suo esercizio ad un regime di autorizzazione soltanto se la necessità di un regime di autorizzazione è giustificata da un motivo imperativo di interesse generale e se l’obiettivo perseguito non può essere conseguito tramite una misura meno restrittiva”.
«La giurisprudenza europea si è focalizzata sulle legittime eccezioni all’apertura dei mercati, fra cui figura la razionale gestione del territorio, riproponendo sostanzialmente il catalogo delle ipotesi derogatorie dettate dall’art. 36 dal TFUE, “secondo una giurisprudenza costante, le restrizioni alla libertà di stabilimento che siano applicabili senza discriminazioni basate sulla cittadinanza possono essere giustificate da motivi imperativi di interesse generale, a condizione che siano atte a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non vadano oltre quanto necessario al raggiungimento dello stesso” (sentenza 10 marzo 2009, causa C169/07, Hartlauer).
«Una puntuale trasposizione nazionale dei motivi imperativi di interesse generale declinati dal sistema UE si rinviene nell’art. 31 del d.l. 6 dicembre 2011 n. 201, convertito in l. 22 dicembre 2011 n. 214, in forza del quale “secondo la disciplina dell’Unione Europea e nazionale in materia di concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi, costituisce principio generale dell’ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali. Le Regioni e gli enti locali adeguano i propri ordinamenti alle prescrizioni del presente comma entro il 30 settembre 2012, potendo prevedere al riguardo, senza discriminazioni tra gli operatori, anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive e commerciali solo qualora vi sia la necessità di garantire la tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali”.
«Già l’art. 6, comma 2 del d.lgs. n. 114 del 1998 aveva assegnato alle Regioni, in sede di programmazione della rete distributiva, il compito di individuare “i limiti ai quali sono sottoposti gli insediamenti commerciali in relazione alla tutela dei beni artistici, culturali e ambientali, nonché dell’arredo urbano, ai quali sono sottoposte le imprese commerciali nei centri storici e nelle località di particolare interesse artistico e naturale”.
«La razionale gestione del territorio è stata così riconosciuta esplicitamente quale limite (consentito dalla disciplina UE) all’iniziativa economica in quanto motivo imperativo di interesse generale.
«La giurisprudenza amministrativa ha più volte riconosciuto che, fra i suddetti interessi generali, rientri la materia urbanistica: “la disciplina comunitaria della liberalizzazione non può essere intesa in senso assoluto come primazia del diritto di stabilimento delle imprese ad esercitare sempre e comunque l’attività economica, dovendo, anche tale libertà economica, confrontarsi con il potere, demandato alla pubblica amministrazione, di pianificazione urbanistica degli insediamenti, ivi compresi quelli produttivi e commerciali” (Cons. St., sez. IV, primo giugno 2018, n. 3316).
«Ciò facendo riferimento alla nozione ampia di governo del territorio, non limitata alla individuazione delle destinazioni delle zone del territorio comunale, ed in particolare alla possibilità e limiti edificatori delle stesse, e alla disciplina coordinata della edificazione dei suoli, ma estesa, per mezzo della disciplina dell’utilizzo delle aree, allo sviluppo urbanistico in genere nel territorio attraverso anche la realizzazione di finalità economico-sociali della comunità locale (non in contrasto ma anzi in armonico rapporto con analoghi interessi di altre comunità territoriali, regionali e dello Stato).
«In definitiva, “l’urbanistica ed il correlativo esercizio del potere di pianificazione non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, così offrendone una visione affatto minimale, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo ed armonico del medesimo” (Cons. St., sez. IV, 22 febbraio 2017, n. 821).
«In questo contesto il Consiglio di Stato ha affermato che “il piano regolatore è appunto lo strumento attraverso cui trovano composizione i vari interessi espressi dal territorio e la sua stessa formazione consente l’emersione di quei “motivi imperativi di interesse generale” ai quali, secondo i principi comunitari, vanno ricondotti i limiti all’esercizio delle attività economiche” (Con. St., sez. IV, 20 marzo 2019, n. 1831).
«Nondimeno, la necessità di garantire l’interesse pubblico al buon governo del territorio anche in relazione ai grandi stabilimenti commerciali non giustifica però l’inibizione all’iniziativa economica ma comporta la necessità che essa sia bilanciata e coordinata con le prerogative pubblicistiche.
«Il procrastinare sine die la valutazione di tale compatibilità ne comporta un non giustificato svilimento.
«La Corte costituzionale ha ritenuto, infatti, infondata la questione di legittimità costituzionale di una disposizione regionale con la quale venivano sospesi i procedimenti per il rilascio di nuove autorizzazioni per l’apertura di grandi strutture di vendita fino alla conclusione dei procedimenti di pianificazione territoriale previsti dalla medesima legge regionale allora impugnata in ragione della presenza di un termine finale certo entro il quale veniva a cessare il periodo di sospensione, rendendo non irragionevole il limite all’iniziativa economica privata per la salvaguardia di un bene di rilievo costituzionale (Corte cost., 12 aprile 2013, n. 65).
«Pertanto, la ricorrenza di un interesse generale che giustifica in tesi la sussistenza di un procedimento che valuti e raccordi la libera prestazione di servizi con le esigenze urbanistiche non determina un irragionevole limite all’iniziativa economica privata solo in presenza di un termine finale certo entro il quale cessi il periodo di inibizione dell’attività economica, pena il venir meno della tutela di quest’ultima, così come accordata dal diritto derivato dell’Unione europea e dalle norme interne di attuazione.
«Anche in presenza di un inderogabile interesse generale, quindi, le esigenze pubblicistiche che ne derivano non possono costituire strumento per la soppressione o la sospensione senza termine delle medesime.
«La disciplina generale del procedimento amministrativo, la regolamentazione in materia di liberalizzazione delle attività commerciali e la normativa urbanistica convergono, pertanto, nel supportare un’interpretazione della norma transitoria nel senso che attribuisca all’Amministrazione la potestà di evadere le istanze di ampliamento di centri commerciali pur nella perdurante assenza della programmazione urbanistica commerciale»».

Daniele Majori – Avvocato cassazionista e consulente aziendale

Fonte:www.giustizia-amministrativa.it

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