(Tar Calabria, Reggio Calabria, 22 novembre 2012, n. 695)
«Le ricorrenti avanzano altresì domanda risarcitoria per l’illegittima condotta tenuta dal Comune di Caulonia successivamente alla sentenza del Tribunale. Lamentano in sostanza il ritardo nell’esecuzione della sentenza, ovvero nella riaggiudicazione della gara a seguito della decisione, protrattosi per così tanto tempo da indurre le imprese ricorrenti a rifiutare la stipula del contratto, alla quale sono state invitate in data 6 novembre 2007, non avendovi più convenienza.
Ad avviso del Collegio la domanda è fondata, con le precisazioni di cui infra.
Giova ricordare che in occasione della partecipazione alla gara indetta dal Comune di Caulonia per i “lavori di bonifica del dissesto idrogeologico rupe centro storico” l’offerta presentata dalle ricorrenti veniva, in un primo momento, considerata la migliore per il massimo ribasso operato. Successivamente la stazione appaltante, procedendo ad una verifica dei prezzi unitari offerti dalle concorrenti, rettificava l’aggiudicazione, ritenendo migliore l’offerta dell’ATI Circosta Costruzioni s.r.l. Con la sentenza n. 865/2004 questo Tribunale ha rilevato che, sulla base del disciplinare di gara, doveva darsi prevalenza, in caso di discordanza tra i prezzi unitari offerti e il ribasso percentuale, a quest’ultimo, senza alcuna possibilità di rettifica sulla base dei prezzi unitari. Sulla base di tale rilievo veniva annullata l’aggiudicazione disposta a favore della Circosta Costruzioni.
Risultando dunque l’ATI odierna ricorrente la migliore offerente, con un ribasso percentuale pari a 18,672% e con un prezzo offerto di € 1.336.898,15, la stazione appaltante avrebbe dovuto, in esecuzione della sentenza, aggiudicare a questa la gara, procedendo alla stipula del contratto.
Nella vicenda oggi all’esame, invece, il Comune, dopo aver chiesto, nel febbraio 2005, i documenti necessari alla stipulazione del contratto, soltanto con la determina n. 87 del 24 aprile 2007, dunque a distanza di circa due anni e mezzo dalla sentenza, in esecuzione della pronuncia del Tribunale, procedeva ad aggiudicare l’appalto in via provvisoria alle ricorrenti, richiedendo alle imprese la produzione di una serie di documenti (gli stessi chiesti nel 2005, oltre il DURC). Le ricorrenti depositavano presso gli uffici i documenti richiesti in data 11/05/2007. Successivamente, il 6 novembre 2007, il responsabile dell’area tecnica, in esecuzione della determina n. 144/2007, invitava le società a depositare i documenti già richiesti, oltre all’atto costitutivo ATI in originale. Seguiva, in data 14 novembre 2007, una comunicazione del legale delle ricorrenti, con la quale le società dichiaravano di non voler procedere alla stipula del contratto, in considerazione del tempo trascorso che aveva determinato il mutamento delle condizioni e dei presupposti del lavoro, riservandosi di richiedere, comunque, il risarcimento del danno.
E’ opportuno precisare che il rifiuto alla stipula del contratto è facoltà espressamente prevista dall’art. 11 comma 9 del D.lgs. 163/2006, qualora il contratto non venga stipulato entro il termine stabilito, ovvero entro 60 giorni dall’aggiudicazione definitiva. Nel caso di specie, considerato che la riaggiudicazione è stata disposta con determina del 22 maggio 2007 e che l’invito alla stipulazione è avvenuto con la comunicazione del 6 novembre 2007, certamente non è stato rispettato il termine dei 60 giorni previsto dalla norma sopra citata. Deve poi ricordarsi che l’art. 11 comma 6 del D.lgs. 163/2006 stabilisce che l’offerta è vincolante per il periodo di 180 giorni (se il bando o l’invito non indicano un termine diverso).
Nel caso di specie deve poi considerarsi l’inerzia ingiustificata tenuta dal Comune per lungo tempo (quasi tre anni) per porre in essere gli adempimenti amministrativi discendenti dalle statuizioni del Tribunale.
In materia di appalti, e più in generale negli ambiti in cui si esplica un’attività economica soggetta alle regole del mercato, il “fattore tempo” è un elemento di estremo rilievo, in quanto il suo eccessivo protrarsi può determinare il mutamento delle condizioni economiche in base alle quali è stata presentata una determinata offerta in sede di gara ed avere dunque una pesante incidenza sulla convenienza economica dell’attività da svolgere. Nel caso di specie, l’offerta è stata formulata nell’ambito della procedura ad evidenza pubblica che ha avuto luogo nei primi mesi del 2004.
Alla luce di quanto sopra, il rifiuto alla stipulazione da parte delle ricorrenti non può quindi essere considerato come comportamento rinunziatario, sintomo di disinteresse delle imprese (secondo la lettura data dalla difesa del Comune resistente), ma come legittimo esercizio di una facoltà prevista dalla legge, a fronte di un comportamento ingiustificatamente dilatorio ed omissivo della stazione appaltante.
Il Collegio aggiunge, in proposito, che dopo un giudicato da cui deriva l’obbligo dell’Amministrazione di aggiudicare e stipulare con la parte vittoriosa in giudizio, la responsabilità per mancata stipulazione non può essere qualificata come responsabilità precontrattuale, ma come responsabilità per inosservanza degli obblighi derivanti dal giudicato. Infatti un conto è la conduzione di una trattativa contrattuale, da cui non deriva mai un obbligo di stipulare un contratto, ma solo l’obbligo del rispetto dei principi di buona fede (con conseguente responsabilità precontrattuale in caso di inosservanza), un conto è essere obbligati, in virtù di un giudicato, a procedere ad aggiudicazione e stipulazione (cfr. Cons. Stato VI 11 gennaio 2010 n. 20).
Ciò precisato, sussistono nel caso in esame i presupposti per ritenere integrata la fattispecie di cui all’art. 2043 c.c.
E’ ravvisabile innanzi tutto l’ingiustizia del danno, sotto il duplice profilo del danno arrecato non iure e contra ius. Che le imprese ricorrenti avessero diritto all’aggiudicazione della gara è circostanza incontestabile, stabilita dalla sentenza n. 865/2004. L’inerzia serbata dall’Amministrazione per un lungo periodo di tempo non trova giustificazione alcuna. Peraltro la difesa del Comune non adduce alcuna argomentazione in ordine al ritardo nel compimento degli atti necessari all’esecuzione della sentenza sopra citata.
Sussiste dunque anche il carattere gravemente colposo del comportamento serbato dall’amministrazione, avendo la stessa ritardato, per un lungo lasso di tempo, di rideterminarsi in ordine alla riaggiudicazione dell’appalto in palese violazione del giudicato di questo Tribunale. In ogni caso, deve ricordarsi, la Corte di Giustizia CE, Sez. III – 30 settembre 2010 (C-314/09) ha a chiare lettere affermato che la direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/665/CEE, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, la quale subordini il diritto ad ottenere un risarcimento, a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’amministrazione aggiudicatrice, al carattere colpevole di tale violazione, finanche se la normativa preveda una presunzione di colpevolezza vincibile solo attraverso la dimostrazione della scusabilità dell’errore. Nel caso di specie peraltro, come già rilevato, nessuna deduzione è stata spiegata per prospettare l’eventuale scusabilità dell’errore.
Sussiste altresì il nesso di causalità tra il comportamento serbato dall’Amministrazione e il mancato ottenimento dell’appalto, considerato che, come detto sopra, la rinuncia alla stipula formalizzata dalle imprese ricorrenti costituisce esercizio di una facoltà pienamente giustificata nel caso di specie.
Dunque, sussistono tutti i presupposti per l’imputazione del danno all’amministrazione.
Non resta che procedere alla relativa liquidazione sulla base del pregiudizio allegato e provato dalle ricorrenti.
Le imprese articolano come segue la domanda risarcitoria:
a) spese sostenute per la predisposizione della partecipazione alla gara e quindi dell’offerta, quantificata secondo prassi nell’importo dell’1% dell’importo originario dell’appalto (€ 1.668.835,03), e pari quindi a € 16.688, 53;
b) (mancato) utile che sarebbe derivato dall’esecuzione dell’appalto pari alla misura del 20% dell’importo a base dell’appalto, al netto del ribasso offerto (ovvero pari a € 1.336.898,15), corrispondente alla somma di € 267.379,60; in subordine nella misura del 10% dell’importo a base dell’appalto al netto del ribasso come da art. 345 L. n. 2248/1865 All. F;
c) perdita di un ulteriore accreditamento per l’ATI e per le imprese costituenti l’ATI, derivante dalla impossibilità di conseguire ulteriore certificazione utile ai fini della SOA;
d) ulteriori disagi e perdite di tempo, con inevitabili ricadute economiche derivanti dalla condotta illegittima tenuta dall’Ente resistente e dai suoi preposti anche dopo l’annullamento della gara;
e) mancato accreditamento delle società ricorrenti.
Il Collegio precisa che i danni valutabili in questa sede sono soltanto quelli prodottisi dopo la pronuncia della sentenza n. 865 del 12/11/2004. I danni determinatisi nel periodo antecedente rimangono coperti dal giudicato che ha respinto la relativa domanda per difetto di prova e per genericità. Invero le ricorrenti, nell’ambito del giudizio RG n. 1332/2004, avevano chiesto il danno corrispondente alle lavorazioni già eseguite dall’allora aggiudicataria, la Circosta Costruzioni. Conseguentemente devono ritenersi inammissibili nell’odierno giudizio le voci di danno maturate prima della sentenza n. 865/2004, in quanto hanno già formato oggetto di specifica domanda, respinta da questo Tribunale. Pertanto dall’importo posto a base dell’appalto, al netto del ribasso offerto, quale parametro per la quantificazione del lucro cessante, deve essere detratto il costo corrispondente ai lavori eseguiti dalla Circosta Costruzioni prima del deposito della sentenza. In particolare dallo stato di avanzamento lavori n. 1, depositato dalla parte ricorrente, si evince che fino al 3 novembre 2004 l’allora aggiudicataria ha realizzato lavori per un importo pari a € 428.854,05. Tale somma deve essere detratta, come detto, dall’importo posto a base dell’appalto, al netto del ribasso offerto.
Il parametro di riferimento per la determinazione del lucro cessante, sotto il profilo dell’utile di impresa, deve dunque individuarsi nell’importo di € 908.044,1, determinato detraendo dall’importo offerto dalle ricorrenti il costo corrispondente ai lavori realizzati dall’allora aggiudicataria prima del deposito della sentenza.
E’ questo infatti il corrispettivo che avrebbe dovuto essere conseguito dalle ricorrenti in caso di tempestiva riaggiudicazione, in esecuzione della sentenza di questo Tribunale più volte citata.
Sull’importo così determinato il Collegio ritiene congruo stabilire l’utile di impresa nel 10%, facendo riferimento, secondo la prevalente giurisprudenza, all’art. 345 della legge 20.3.1865, n. 2248, all. F (riprodotto dall’art. 122 del regolamento, emanato con D.P.R. 21.12.1999, n. 554 e dall’art. 37 septies, comma 1, lettera c, della legge 11.2.1994, n. 109, ora art. 134, d.lgs. 163 del 2006).
Conseguentemente la somma da liquidare alle ricorrenti per tale causale è di € 90.804,41.
Tale quantificazione, tuttavia, deve essere dimezzata perché le imprese ricorrenti non hanno dimostrato di essere state nell’impossibilità di utilizzare, durante il tempo trascorso in attesa della riaggiudicazione dell’appalto, mezzi e maestranze per l’espletamento di altri e diversi servizi (Cons. Stato, V 24 ottobre 2002, n. 5860; VI, 9 novembre 2006, n. 6607; Cons. Stato, VI 13 gennaio 2012 n. 115).
Invero, come rilevato dalla giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, VI, 18 marzo 2011, n. 1681), ad evitare che a seguito del risarcimento il danneggiato possa locupletare un effetto finanziario addirittura migliore rispetto a quello in cui si sarebbe trovato in assenza dell’illecito, dall’importo così calcolato va detratto quanto percepito dall’impresa grazie allo svolgimento di attività lucrative diverse, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire l’appalto in contestazione. L’onere di provare (l’assenza del) l’aliunde perceptum vel percipiendum grava sull’impresa: e ciò in ragione della presunzione, secondo l’id quod plerumque accidit, che l’imprenditore normalmente diligente (cfr. art. 1227 Cod. civ.) non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma persegue occasioni contrattuali alternative, dalla cui esecuzione trae il relativo utile (Cons. Stato, VI 13 gennaio 2012 n. 115). A maggior ragione nella vicenda oggi all’esame, caratterizzata dalla lunga inerzia della stazione appaltante protrattasi per quasi tre anni, periodo nel quale non pare verosimile che le ricorrenti siano rimaste inattive.
V’è poi un ulteriore elemento da considerare che giustifica la riduzione della quantificazione del lucro cessante, come sopra determinata.
Gli artt. 1227 comma 2 c.c. e 30 comma 3 cod. proc. amm. dispongono che il risarcimento non è dovuto per i danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti.
Nel lungo tempo trascorso tra la pronuncia di questo Tribunale che annullava la precedente aggiudicazione e il ricorso oggi all’esame, le imprese ricorrenti si sono limitate a diffidare l’Amministrazione, senza tuttavia porre in essere strumenti maggiormente cogenti per far valere le proprie ragioni, quali, ad esempio, un giudizio per ottemperanza.
Considerati gli elementi sopra evidenziati, appare allora equo riconoscere alle imprese ricorrenti, a titolo di utile mancato, la somma di euro 45.402,20 corrispondente al 5% della offerta presentata in gara detratto l’importo dei lavori eseguiti prima del deposito della sentenza n. 865/2004.
Ulteriore voce di danno richiesta dalle imprese a titolo risarcitorio consiste nella perdita di accreditamento dell’ATI e, per le imprese costituenti l’ATI, nella perdita della possibilità di conseguire ulteriore certificazione utile ai fine della SOA. Tali voci ritiene il Collegio possano essere ascritte al c.d. danno curriculare, non potendo far valere le imprese ricorrenti, nelle future contrattazioni, il requisito economico pari al valore dell’appalto non eseguito.
Tale voce di danno può essere liquidata in via equitativa. La giurisprudenza individua quale parametro di riferimento ai fini della relativa quantificazione talvolta l’importo dell’appalto (come da offerta presentata in gara), talvolta la somma liquidata a titolo di lucro cessante.
Il Collegio ritiene più coerente con l’interesse sostanziale oggetto di risarcimento (ovvero l’arricchimento del proprio curriculum professionale grazie all’esecuzione di un appalto di un determinato valore) quantificare il danno curricolare avendo riguardo al valore dell’offerta proposta in sede di gara. Nel caso di specie (anche per le ragioni che hanno indotto il Tribunale alla riduzione del lucro cessante) reputa congruo determinare nell’ 1% dell’offerta tale voce di danno, per una somma pari a € 13.368,98.
Le ulteriori voci che formano oggetto della domanda risarcitoria non possono invece trovare riconoscimento. Quanto alle spese sostenute per la partecipazione alla gara, queste non possono essere riconosciute, trattandosi di spese che, in caso di aggiudicazione, le imprese avrebbero dovuto sostenere integralmente (Cons. Stato VI n. 2751/2008; Cons. Stato, VI, n. 2384/2010; Tar Milano sez. I 20 giugno 2011 n. 1580), determinandosi altrimenti per l’impresa non aggiudicataria un beneficio maggiore di quello che deriverebbe dall’aggiudicazione.
Con riferimento agli “ulteriori disagi e perdite di tempo con inevitabili ricadute economiche”, tale voce di danno è prospettata in termini assolutamente generici, priva di alcuna allegazione probatoria seppur minima: come tale non può essere presa in considerazione da parte del Tribunale.
In conclusione la domanda risarcitoria deve essere accolta nei limiti di cui sopra. L’Amministrazione deve pertanto essere condannata a corrispondere a titolo di risarcimento del danno la somma complessiva di € 58.771,18.
La somma così individuata, costituendo obbligazione di valore, deve essere annualmente rivalutata con decorrenza dal 12/11/2004 (data di deposito della sentenza, immediatamente esecutiva, da cui conseguiva l’obbligo dell’Amministrazione di procedere alla riaggiudicazione dell’appalto), sino alla data di pubblicazione della presente sentenza.
Com’è noto, in tema di responsabilità extracontrattuale da fatto illecito, sulla somma riconosciuta al danneggiato a titolo di risarcimento occorre inoltre considerare anche il nocumento finanziario (lucro cessante) subito a causa della mancata tempestiva disponibilità della somma di denaro dovuta a titolo di risarcimento (somma che, se corrisposta per tempo, avrebbe potuto essere investita per lucrarne un vantaggio finanziario). Siffatto danno forfettariamente risarcibile a mezzo degli interessi al saggio legale, deve essere calcolato non sulla somma originaria, né sulla rivalutazione al momento della liquidazione, ma sulla somma originaria rivalutata anno per anno ovvero sulla somma originaria rivalutata in base ad un indice medio con la decorrenza già indicata, in linea con il fondamentale insegnamento di Cass. SS.UU. n. 1712/1995».
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