(Consiglio di Giustizia amministrativa per la Regione siciliana, 19 aprile 2012, n. 396)
«In primo luogo, è lo stesso dato normativo a smentire che l’art. 2 (il cui comma 8, anche nel testo vigente all’epoca della vicenda in esame, consente il ricorso all’azione ex art. 31 c.p.a., già art. 21-bis legge 6 dicembre 1971, n. 1034) non sia applicabile al procedimento di formazione degli atti generali, pianificatori o regolamentari.
Infatti, l’art. 13 della cit. legge n. 241/1990, che espressamente concerne la disciplina applicabile agli “atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione” – stabilendo che per essi, in quanto non si applichino alcune parti della legge cit., “restano ferme le particolari norme che ne regolano la formazione” – esclude per i procedimenti diretti alla emanazione dei suddetti atti unicamente l’applicazione delle “disposizioni contenute nel presente capo”, ossia il Capo III della stessa legge (artt. da 7 a 13).
A contrario, dunque, detto art. 13 conferma che le disposizioni degli altri capi della legge – e, in particolare, per quanto qui rileva quelle del Capo I, tra cui è compreso l’art. 2 – si applicano anche ai procedimenti destinati a sfociare nell’emanazione degli atti normativi.
[…] La più consapevole giurisprudenza – anche tra quella citata dalla sentenza appellata – è orientata non già nel senso che gli atti normativi, pianificatori e generali non siano sollecitabili mediante il ricorso al rimedio processuale del silenzio-rifiuto, bensì segue il ben diverso e condivisibile criterio che, rispetto a tali atti, occorra svolgere un’attenta verifica della legittimazione attiva in capo al ricorrente.
Proprio in quanto si tratta di atti destinati a produrre effetti nei confronti dell’intera collettività – ciò dicesi, in particolare, per gli atti normativi; per quelli generali, che hanno destinatari determinabili sia pure solo a posteriori, il discorso sarebbe invece alquanto diverso, mentre per quelli pianificatori, che partecipano parzialmente alla natura dell’uno e dell’altro di detti generi, la situazione si pone in termini intermedi tra i due – generalmente si esclude che in capo a ciascun consociato, soltanto in quanto tale, si possa riconoscere una situazione giuridica soggettiva tale da legittimarlo all’impugnazione del silenzio, adeguatamente qualificata e differenziata da quella della generalità dei cittadini (ossia, in altri termini, un “interesse legittimo”); e si ritiene, dunque, che – proprio per non trasformare, rispetto a detti atti, quella sul silenzio in un’azione popolare (che, contrastando con la natura soggettiva della nostra giurisdizione amministrativa, può ammettersi nei soli casi espressamente previsti dalla legge) – occorra ricercare ulteriori requisiti legittimanti (appunto in termini di qualificata differenziazione dell’interesse sottostante all’impugnazione) cui ancorare, in detti ambiti, la legittimazione attiva del ricorrente (cfr. C.d.S., IV, 7 luglio 2009, n. 4351, che peraltro è giunta a conclusioni opposte, ma in relazione a diversa situazione).
Sicché, in ultima analisi, tutto sta a verificare la legittimazione attiva del ricorrente, rispetto all’impugnazione del silenzio serbato nel procedimento per l’emanazione del singolo atto normativo, generale o pianificatorio; dovendo però prescindersi da generiche affermazioni di inammissibilità dell’impugnazione del silenzio rispetto a tali atti che, cercando di semplificarli, in realtà obliterano i termini della questione».
Daniele Majori – Avvocato Amministrativista in Roma
Fonte:www.giustizia-amministrativa.it
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