Atto amministrativo, Procedimento amministrativo

Sull’inammissibilità dell’integrazione postuma della motivazione anche dopo l’introduzione dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, in considerazione altresì delle regole del giusto procedimento amministrativo come delineato dal diritto eurounitario e della circostanza che, per la giurisprudenza della Corte di Giustizia, il difetto di motivazione rientra nella violazione delle forme sostanziali e costituisce un motivo di ordine pubblico da sollevarsi d’ufficio.

(Consiglio di Stato, sez. IV, 7 giugno 2023, n. 5592)

«La possibilità di una tale integrazione è stata, in verità, sempre esclusa dalla giurisprudenza amministrativa prevalente poiché «senza una motivazione anteriore al giudizio, verrebbero frustrati gli apporti (oppositivi o collaborativi) del partecipante al procedimento, essendo la motivazione della decisione strettamente legata alle «risultanze dell’istruttoria», non si potrebbe consentire all’amministrazione di modificare unilateralmente l’oggetto del giudizio rappresentato dall’atto originariamente adottato (e) si imporrebbe al privato di attivare la tutela giurisdizionale praticamente “al buio”, potendo questi conoscere le ragioni alla base della decisione soltanto nel corso del processo». A ciò doveva aggiungersi (sempre a conferma dell’inammissibilità dell’integrazione postuma) quanto previsto dall’art. 6 della legge 18 marzo 1968, n. 249, «il quale non ammetteva la convalida nelle more del giudizio se non con riguardo ai vizi di incompetenza» (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 27 aprile 2021 n. 3385)
10.3.1. Anche a seguito dell’introduzione da parte del legislatore – al fine di alleggerire il peso dei vincoli formali e procedimentali di una pubblica amministrazione che si sarebbe voluta informata ad una logica di “risultato” più che alla legalità “formale” dei singoli atti – della regola della non applicabilità della misura caducatoria in presenza di difformità dallo schema legale che non abbiano influenzato la composizione degli interessi prefigurata nel dispositivo della decisione (art. 21-octies, comma 2, primo periodo, della legge 7 agosto 1990, n. 241, inserito dall’articolo 14, comma 1, della legge 11 febbraio 2005, n. 15), le pronunce che hanno ritenuto di fare applicazione della predetta clausola di non annullabilità, considerando il difetto di motivazione come vizio di carattere meramente formale reso irrilevante dall’accertamento che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, sono rimaste sporadiche e isolate, in quanto l’indirizzo maggioritario della giurisprudenza amministrativa si è ben presto orientato nel senso che «il difetto di motivazione nel provvedimento non può essere in alcun modo assimilato alla violazione di norme procedimentali o ai vizi di forma […] e, per questo, (costituisce) un presidio di legalità sostanziale insostituibile, nemmeno mediante il ragionamento ipotetico che fa salvo, ai sensi dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990, il provvedimento affetto dai cosiddetti vizi non invalidanti» (ex plurimis, Consiglio di Stato, sez III, 7 aprile 2014, n. 1629; sez. VI, 22 settembre 2014, n. 4770; sez. III 30 aprile 2014, n. 2247; sezione V, 27 marzo 2013, n. 1808).
10.3.2. Sulla scorta di tale indirizzo giurisprudenziale, la Corte costituzionale ha anche dichiarato, con l’ordinanza 26 maggio 2015, n. 92, la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241 del 1990, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 97, 24, 113 e 117, primo comma, della Costituzione, da una sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti, motivando, tra l’altro, che la rimettente si era sottratta al doveroso tentativo di sperimentare l’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, chiedendo un improprio avallo a una determinata interpretazione della norma censurata. Per l’inammissibilità della motivazione postuma – sia attraverso gli scritti difensivi che attraverso la regola del raggiungimento dello scopo – in quanto in contrasto anche con le regole del giusto procedimento amministrativo come delineato dal diritto euro-unitario (in particolare, l’art. 296 TFUE, che richiede la motivazione per tutti gli atti delle istituzioni comunitarie, inclusi quelli normativi, e il diritto a una buona amministrazione di cui all’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ) appare orientata anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia, che qualifica la motivazione come “forma sostanziale” e motivo d’ordine pubblico da sollevarsi d’ufficio (ex plurimis, Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sez. VII, 11 aprile 2013, n. 652, C-652/11)».

Daniele Majori – Avvocato cassazionista e consulente aziendale

Fonte:www.giustizia-amministrativa.it

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